Un turno di veglia nella notte

Famiglia cristiana, 24 novembre 2002

“Che cosa è proprio del cristiano? Vigilare ogni giorno e ogni ora, ed essere pronto nel compiere perfettamente ciò che è gradito a Dio, sapendo che all’ora che non pensiamo il Signore viene”. Queste parole di san Basilio, uno dei Padri ispiratori della forma di vita monastica di Bose, concludono le sue Regole morali ed esprimono bene lo sforzo con cui la comunità di Bose cerca di vivere il tempo dell’Avvento. Onorando la lex orandi della tradizione liturgica e la dimensione escatologica della vita monastica, l’accento è posto sull’attesa della venuta gloriosa del Signore, non su attese regressive e devozionali della nascita di Gesù a Betlemme, evento storico avvenuto una volta per sempre. Evento che viene celebrato come caparra della seconda venuta del Signore. Lo sforzo di volgere lo sguardo al Signore veniente si manifesta nella quotidiana preghiera liturgica della comunità con un ascolto intenso dei testi escatologici. Il Lezionario di Bose presenta nella preghiera del mattino dei testi escatologici e messianici dei profeti (soprattutto Isaia) e il discorso escatologico di Gesù nel Vangelo di Matteo (24-25), mentre alla sera “passano” testi escatologici epistolari.

Preghiera personale e comunitaria

Le stesse antifone, cantate durante le Ore e che accompagnano i Salmi e orientano la preghiera, sono versetti neotestamentari sulla venuta finale del Signore e sull’atteggiamento spirituale con cui il cristiano si prepara all’evento. Questo ascolto comunitario e liturgico della parola di Dio si accompagna alla lectio divina personale, svolta da ciascun fratello e sorella della comunità nel segreto della propria cella, su uno di quegli stessi testi (o Antico Testamento o il Vangelo o san Paolo) deciso comunitariamente. Così, preghiera personale e comunitaria si integrano e ciascuno e tutti cercano di rispondere con intensità alla propria vocazione a “essere un segno concreto e visibile dell’attesa della venuta gloriosa del Signore” (Regola di Bose 18).

Questa dimensione di attesa è del resto un valore spirituale di cui il celibato è capace: “Il tuo celibato sarà annuncio e profezia del Regno in cui si sarà non più maschi né femmine, ma una sola cosa in Cristo” (Regola di Bose 18). Per incarnare questa attesa, la Regola chiede anche che ciascuno sappia vivere la preghiera come veglia nella notte: “Veglierai anche nella notte secondo le tue possibilità, per essere di tutto corpo, anima e spirito uno che attende la venuta del Signore” (Regola di Bose 36). Al di là della materiale veglia, e anche attraverso di essa, la comunità cerca di acuire la capacità di vigilanza, intesa come presenza della persona a sé stessa, come attenzione al proprio lavoro, come lucidità nel vivere il quotidiano e come discernimento della presenza del Signore negli altri e negli eventi. Intesa come continuata coscienza di essere alla presenza del Signore: infatti, l’attesa del Signore che verrà non può che accompagnarsi al discernimento della sua venuta quotidiana. Lungi dal divenire un’evasione o una fuga spiritualistica, questa attesa, così connessa alla vigilanza, tende a divenire il fondamento spirituale dell’agire, la luce interiore che illumina l’azione quotidiana, il senso profondo dei gesti di ogni giorno.

L’Avvento è il tempo liturgico dominato da quelle due grandi figure di attesa che sono Giovanni Battista, l’uomo che nel deserto prepara la strada al Veniente, divenuto nella tradizione monastica “il principe dei monaci”, e Maria, la donna di ascolto che accoglie nel suo grembo il Messia. Questi due personaggi, che rinviano alle figure spirituali della solitudine e del silenzio, ispirano un clima di maggiore sobrietà e più intensa preghiera accentuando il silenzio e la solitudine, il ritiro, l’habitare secum, la preghiera personale e la lectio divina in cui sperimentare quelle che san Bernardo chiamava le “visite del Verbo”.

Anche la preghiera dell’Ufficio di Bose nel tempo d’Avvento è intessuta delle tematiche teologicamente e spiritualmente più pregnanti di questo tempo: la promessa del Signore, la vigilanza e la speranza del cristiano, il desiderio del Signore, l’attesa, la dimensione della stranierità e del pellegrinaggio, la signoria di Cristo sul tempo...

L’Avvento è appunto occasione per riflettere sul rapporto con il tempo e per darvi ordine. E dare ordine al tempo non può che significare “darsi tempo”, ovvero, consacrare tempo della propria giornata alla vita interiore, alla preghiera personale, al pensare, al vivere nel faccia a faccia con sé stessi in cella. Intensificando la preghiera, che è sempre un dare tempo al Signore, ci si abitua a fare del tempo della propria vita una donazione al Signore, un luogo di incontro con il Signore, e si sperimenta con più forza il proprio corpo come luogo dell’attesa e del desiderio del Signore. È in quel deserto della cella monastica che si può rivivere anche la dimensione della gioia, gioia intima, indicibile della sua presenza e dell’attesa della sua venuta, gioia che ci abitua a desiderare la venuta del Signore.

In obbedienza al comando apostolico: “Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi... La venuta del Signore è vicina” (Filippesi 4,4-5). L’Avvento è il tempo in cui la comunità nel suo insieme si costruisce nell’attesa del Signore, in cui il non-ancora della fede fa della comunità un luogo di invocazione che, attendendo la venuta del Signore, la affretta. Essendo dunque il tempo di un’attesa vissuta insieme nella gioia, l’Avvento diviene anche l’occasione in cui ciascuno si lascia interpellare con forza dalla domanda: che cosa attendo veramente nella mia vita?

Enzo Bianchi

Soltanto evangelico

SIR, 12 dicembre 2001

Ancora una volta, sì, ancora una volta le parole di Giovanni Paolo II – l’umile successore di Pietro sulla cattedra della Chiesa che presiede nell’amore – risuonano come profezia, annuncio schietto del Vangelo fatto con parresia e coraggio, a costo di dispiacere chi vorrebbe sì una voce religiosa a favore della pace, ma attenta ad accordarsi con le dominanti mondane. Chi, nelle settimane passate, avesse pensato che il papa non volesse più essere la voce evangelica che confessa Cristo come il Principe della pace e, quindi, la Chiesa come la “serva e ministra della riconciliazione e della pace”, ora si accorgerà di aver fatto supposizioni errate. Il messaggio di Giovanni Paolo II per la Giornata mondiale della pace è interamente religioso, soltanto evangelico, per nulla politico: un discorso, dunque, profetico, cioè “voce”, eco della parola di Dio per la Chiesa e per il mondo!

Di fronte al mysterium iniquitatis che agisce efficacemente nella storia, in seno all’umanità e tra gli stessi cristiani – come il papa aveva ricordato ad Atene durante l’incontro con la Chiesa ortodossa greca – il cristiano sa, ha la consapevolezza che questo mistero di iniquità, nonostante la sua presenza mortifera, è stato vinto da Cristo risorto e che, dunque “non ha l’ultima parola nelle vicende umane” perché “la storia del mondo è sempre accompagnata dalla sollecitudine misericordiosa di Dio”. La Chiesa continua, anche dopo gli eventi dell’11 settembre, a essere invitata alla speranza. Essa sa di andare incontro al Signore che è venuto a portare la pace, sa che la pace alla fine sarà l’esito della storia di salvezza: sì, pace, shalom, vita piena, vita riconciliata, vita per sempre, nella tranquillità di una comunione non più contraddetta.

Ma il messaggio di Giovanni Paolo II non è solo un canto di speranza che riprende la grande tradizione cattolica, è anche un testo ricco di alcune novità, segno di quel cammino di maturazione voluto dallo Spirito santo che conduce la Chiesa sempre di più alla piena verità. Umilmente ma con forza, Giovanni Paolo II confessa: “ragionando e confrontandomi con la Rivelazione biblica sono giunto alla convinzione che non si ristabilisce appieno l’ordine infranto, se non coniugando fra loro giustizia e perdono”. Se la Chiesa, con Paolo VI, aveva fatto risuonare con nuovi accenti che “opera della giustizia sarà la pace” (Is 32,17), ora la voce della Chiesa ridice non solo che opera della giustizia è la pace, ma che la giustizia è opera del perdono. Gli uomini hanno conosciuto, l’11 settembre, un’epifania del terrorismo mortifero, una manifestazione della violenza cieca e demoniaca, ma nemmeno a questi eventi si può contrapporre una giustizia umana sempre fragile e imperfetta: solo la giustizia esercitata e completata dal perdono appare evangelica ed efficace anche sul piano storico e umano. Sì, il perdono non si contrappone alla giustizia, come purtroppo è avvenuto in queste scorse settimane, ma è l’indicazione evangelica lasciata da Gesù ai suoi seguaci, è ciò che costituisce la “differenza cristiana” rispetto alla logica mondana. E, si badi bene, il perdono che chiede il papa non è solo quello personale, ma è quello sociale che deve essere praticato da famiglie, gruppi, stati, dalla comunità internazionale, i quali solo attraverso il perdono possono porre un fondamento saldo e vero per una società più giusta e solidale. Per questo è necessario mettere in pratica, instaurare nella cultura della società una pedagogia del perdono. Certo, “a breve termine, il perdono comporta un’apparente perdita, mentre la violenza opta per un guadagno a scadenza ravvicinata, ma prepara una perdita reale e permanente”.

Discorso meditato in prima persona, quello del papa, riflessione da vero successore di Pietro, servo della parola di Dio! Ecco perché il primo impegno per la pace è pregare, ecco perché il papa lo chiede per il 16 dicembre, in una intercessione accompagnata dal digiuno in solidarietà con i fratelli musulmani, e per il 24 gennaio, in una adunanza in cui gli uomini che cercano Dio a tentoni, nella loro ricerca chiedono a Dio il dono della pace e si impegnano affinché le loro relazioni siano ispiratrici di pace e non di guerra.

Enzo Bianchi