Irrompe la luce piena

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17 aprile 2022

Pasqua di Resurrezione
Omelia di fr. Sabino Chialà, priore di Bose

Luca 24,1-12

1 Il primo giorno della settimana, al mattino presto esse si recarono al sepolcro, portando con sé gli aromi che avevano preparato. 2Trovarono che la pietra era stata rimossa dal sepolcro 3e, entrate, non trovarono il corpo del Signore Gesù. 4Mentre si domandavano che senso avesse tutto questo, ecco due uomini presentarsi a loro in abito sfolgorante. 5Le donne, impaurite, tenevano il volto chinato a terra, ma quelli dissero loro: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo? 6Non è qui, è risorto. Ricordatevi come vi parlò quando era ancora in Galilea 7e diceva: «Bisogna che il Figlio dell'uomo sia consegnato in mano ai peccatori, sia crocifisso e risorga il terzo giorno»». 8Ed esse si ricordarono delle sue parole 9e, tornate dal sepolcro, annunciarono tutto questo agli Undici e a tutti gli altri. 10Erano Maria Maddalena, Giovanna e Maria madre di Giacomo. Anche le altre, che erano con loro, raccontavano queste cose agli apostoli. 11Quelle parole parvero a loro come un vaneggiamento e non credevano ad esse. 12Pietro tuttavia si alzò, corse al sepolcro e, chinatosi, vide soltanto i teli. E tornò indietro, pieno di stupore per l'accaduto


La liturgia che stiamo vivendo, iniziata con il fuoco e la sua luce, ci ha introdotto in un clima decisamente diverso da quello dei giorni scorsi. Un clima gioioso e di festa. È la Pasqua del Signore. È la “notte luminosa più del giorno”, in cui, facendo memoria della liberazione del popolo d’Israele dalla schiavitù d’Egitto, riviviamo la resurrezione del Figlio di Dio dai morti.

È la notte in cui osiamo ripetere gli uni agli altri ciò che è ad un tempo la parola fondante della nostra fede, senza la quale non saremmo qui, e la più scandalosa, che pronunciamo non di rado con imbarazzo, stupore e anche un po’ di timore: “Cristo è risorto! È veramente risorto”.

Un clima diverso… ma non fino in fondo, e comunque in piena continuità, parte di un unico mistero. Ciò che riviviamo in questa notte, infatti, non è estraneo a ciò che abbiamo rivissuto nei primi giorni del triduo. Ne è piuttosto la prosecuzione, lo svelamento, il frutto: è la luce piena di ciò che lì era stato preparato e seminato. La resurrezione infatti non è la rivincita sulla morte, ma lo svelamento della salvezza procurata da quella morte: l’amore infinito vissuto da Gesù con i suoi discepoli nella camera alta, quando aveva lavato loro i piedi e offerto il suo corpo e il suo sangue, e l’amore infinito confermato sulla croce, ora appare in tutta la sua potenza di vita.

Sì, perché l’amore, quando è autentico, genera vita. Gesù quella vita l’aveva seminata e ora, nel mistero di questa notte, la vediamo germogliare, venire in piena luce, anche se il racconto evangelico che abbiamo ascoltato resta discreto. Non si presenta come una marcia trionfale, ma piuttosto come un sommesso inno di giubilo, che si fa sempre più sonoro e sicuro man mano che avanza.

Le scene che precedono il nostro brano narrano la morte e la sepoltura di Gesù. Al centro vi è ancora il Maestro: è lui, o meglio il suo corpo, che attira gli sguardi e le cure di alcune donne e di pochi uomini che lo calano dalla croce e lo depongono in un sepolcro. Gesù era rimasto protagonista fino al momento della morte, quando aveva pronunciato le sue ultime parole, da Signore. Ora la scena cambia. Di lui resta un cadavere cui prestare le ultime cure.

C’è poi un tempo vuoto, il sabato del riposo, che avrebbe potuto fungere da spazio di distacco definitivo da quella storia finita non troppo bene agli occhi dei discepoli, e non solo. E invece c’è ancora qualcosa da fare: ci sono degli “aromi preparati” per ungere il corpo del Signore. Luca li menziona nella scena della sepoltura e poi in quella della resurrezione (23,56; 24,1), come elemento di passaggio e di unità tra le due scene.

Le donne, a differenza degli uomini per cui tutto era ormai finito, si mettono in movimento perché sanno che ci sono degli aromi preparati e che vanno cosparsi sul corpo di Gesù. Ciò che le spinge è un semplice gesto di cura, che era stato interrotto e che ora chiede di essere portato a compimento. Bisogno istintivo o affetto tenace? Poco importa!

Giunte al sepolcro cominciano a vedere ciò che non si attendevano: la “pietra rimossa” (v. 2), “due uomini in abito sfolgorante” (v. 4). Non trovano invece quello che cercano: “Non trovarono il corpo del Signore Gesù” (v. 3).

Odono anche parole inconsuete: “Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risorto” (vv. 5-6). Quindi sono rimandate al loro passato con il Maestro: “Ricordate come vi parlò, quando era ancora in Galilea” (v. 6).

L’incontro con i due uomini e il ricordo delle parole del Maestro le spingono così a un altro cammino: trasformano il loro bisogno di prendersi cura di un corpo in un nuovo inizio, di cui diventeranno poi annunciatrici. Dice infatti Luca: “Raccontavano queste cose agli apostoli” (v. 10). La prima reazione sarà l’incredulità: “Quelle parole parvero loro [agli apostoli] come un vaneggiamento e non credevano ad esse” (v. 11). Pietro tuttavia si reca al sepolcro, vede e torna indietro “pieno di stupore per l’accaduto” (v. 12).

Il fondamento della nostra fede è racchiuso in questo inizio semplice e dimesso, che tuttavia ci indica una strada, per la quale possiamo anche noi entrare nel mistero della resurrezione: dalla cura per ciò che resta, alla fiducia in un annuncio inatteso e sconvolgente, facendo memoria della parola Signore, della sua promessa.

Innanzitutto la cura: il bisogno di ungere un corpo, di compiere un gesto che potrebbe sembrare poco utile, velleitario: aromi sprecati, avrebbe detto qualcuno! In fondo la storia era finita… Perché trascinarne il ricordo? Perché rimuginare ferite e delusioni? E invece proprio quella cura, che sembra inutile, apre, disvela percorsi inattesi. Una cura reale, concreta, senza tante domande… semplicemente offerta.

C’è poi la fiducia accordata a parole che sembrano insensati vaneggiamenti, che parlano di resurrezione di un morto. Certo il corpo di Gesù era scomparso, ma da qui a credere che fosse risorto il passo non è né breve né obbligato. Ma la vita richiede questi salti illogici. I nostri piccoli calcoli non basteranno mai da soli a generare vita. Anzi, a volte la uccidono e la limitano. Senza l’azzardo della fiducia in ciò che non vediamo, né conosciamo, né siamo capaci di controllare, gli orizzonti, i nostri orizzonti, si restringono sempre di più, e la nostra vita diventa sempre più misera. Abbiamo bisogno di salti illogici, come quelli in cui arriviamo a dire: “Cristo è risorto! È veramente risorto”. I salti illogici della fede, appunto.

Questi però trovano forza e fondamento in una parola, che l’evangelo chiede di ricordare: la parola del Signore, la sua promessa. Per le donne, quella parola che le aveva spinte ad andare dietro a un Maestro così particolare. Per noi, una parola che ci ha condotti fin qui, modificando spesso i nostri percorsi: una parola che ci ha preceduti e accompagnati, in cui abbiamo creduto, e che ancora ci chiede di farle fiducia.

Possiamo dunque vedere in queste tre realtà – cura, fiducia e memoria – ciò che definisce lo spazio in cui la fede nella resurrezione può diventare un cammino possibile. E quando dico “resurrezione” penso alle nostre vite spesso ferite e alle nostre relazioni faticose o lacerate. È lì che l’annuncio di questa santa notte vuole raggiungerci.

Pensiamo in particolare alle relazioni lacerate dalle guerre. In questa veglia non possiamo non ricordare la guerra in Ucraina e in Etiopia, che vogliamo rendere presente al cuore della nostra celebrazione pasquale, perché sia davvero una liturgia cosmica. Vogliamo anche rendere presenti le tante altre guerre, più o meno dimenticate. Guerre in cui la follia fratricida si esprime in distruzioni che ci fanno disperare e ci fanno sentire piccoli e impotenti. Ma pensiamo anche alle nostre lacerazioni fraterne, che ci fanno sentire non meno piccoli e impotenti.

Che senso può avere allora celebrare la Pasqua del Signore? Ha senso perché, mai come in questo momento, avvertiamo il bisogno di una pace che viene dall’alto, proprio come la vita del Risorto. Mai come in questo frangente ci rendiamo conto che noi esseri umani siamo troppo piccoli per fare da soli, che abbiamo bisogno delle energie del Risorto, della sua vita, del dono della sua presenza in mezzo a noi.

Penso a un’immagine che circola da alcune ore sui media: due donne (ancora donne, come quelle recatesi al sepolcro) che tengono in mano una croce e che si guardano con franchezza e rispetto, forse con un po’ di imbarazzo, ma con una decisione potente. Appartengono a due popoli che in questo momento si combattono. Molti hanno contestato quel loro essere accanto. Ma quella prossimità è stata resa possibile da una semplice croce che era lì in mezzo, che le ha tenute lì, anche solo per un istante. Quella croce gloriosa, e l’amore debordante che essa significa, ha avuto il potere di farle incontrare. Questo mostra quanto bisogno abbiamo del “dono della pace”, che non possiamo darci da soli.

Tuttavia quella croce ha avuto bisogno delle mani delle due donne per stare in piedi; e avrà poi bisogno della loro umanità per farsi concreta esperienza di fraternità: dei loro sguardi, che accettano di alzarsi, di guardarsi in verità, di rispettarsi, di trasformarsi in cura. Così è anche per noi.

Allora la forza della resurrezione, il dono che viene dall’altro, avanza nelle nostre vite. Avanza, come per le donne al sepolcro, tramite la cura per dei corpi, la fiducia in un annuncio folle e che sa immaginare scenari inauditi, possibile quando sappiamo fare memoria della promessa del Signore, come anche di quella prossimità creazionale che è alle nostre spalle, che ci accomuna tutti e il cui oblio è padre di ogni guerra.

Ecco allora come la nostra impotenza può aprirsi all’annuncio pasquale, e noi possiamo diventarne ministri a nostra volta: prendendoci cura di ciò che resta, come le donne al sepolcro che, mentre si recano a ungere un morto, s’imbattono nella vita; osando credere l’inaudito e sperando contro ogni speranza; facendo memoria della fedeltà di Dio, le cui tracce sono già nel nostro passato, anche quello più segnato dalla sofferenza.

La cura dice responsabilità. Prendersi cura significa agire responsabilmente laddove vediamo all’opera il male; e dovremo farlo spesso senza sapere bene dove questo ci porterà: lo capiremo strada facendo, e soprattutto guardando negli occhi chi di quella cura ha bisogno, come anche chi di quel male è causa.

La fiducia nella parola folle della resurrezione dice fede in Colui che crediamo ospite delle nostre miserie e medico delle nostre malattie. Egli, sceso negli inferi che noi esseri umani non smettiamo mai di creare, proprio lì, al fondo del non senso, ripete sommessamente il suo annuncio pasquale.

Tutto questo fondati sulla fedeltà di Dio che abbiamo già sperimentato lungo la nostra vita, e di cui siamo chiamati a rinnovare la memoria.

Per questo possiamo osare dire ancora: “Cristo è risorto! E’ veramente risorto!”.