Lettera agli amici - numero 19 - Umiltà e mitezza sono essenziali alla comunione

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Domenica in albis 1988

La lettera datata 10 aprile 1988, Domenica in albis, denunciava la situazione di conflittualità nella chiesa e l’attivismo verso il sociale e il politico come contraltare della mancanza di carità tra cristiani. La lettera accennava a “accuse gravi a molti fratelli, denunce a tribunali ecclesiastici”. Sulla scena politica italiana continuava la lotta per la supremazia nella maggioranza parlamentare tra la Democrazia Cristiana e il Partito Socialista, mentre anche all’interno della compagine democristiana in politica e tra cattolici nella chiesa era evidente la conflittualità. Il caso più celebre, nei primi mesi del 1988, è quello dei violenti attacchi della rivista “il Sabato” di Comunione e Liberazione contro il gruppo della Rosa Bianca attorno alla figura dell’ex rettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Giuseppe Lazzati (1909-1986). In questa controversia si vedeva la contrapposizione, di cui parla la lettera, tra “cristianesimo della Parola” e “cristianesimo della presenza” militante nel sociale e politico.

La lettera parlava anche della separazione funzionale tra parrocchie e movimenti a favore della visibilità di questi ultimi. In occasione della terza Giornata Mondiale della Gioventù, che venne celebrata a carattere diocesano la Domenica delle Palme 1988, Giovanni Paolo II mandava, tramite il Pontifico Consiglio per i Laici, un messaggio a diocesi, parrocchie, associazioni e movimenti.

La lettera citava i casi in cui la chiesa veniva chiamata o sollecitata a giocare un ruolo di arbitrato politico come in Nicaragua, Polonia, Filippine. Il 30 dicembre 1987 Giovanni Paolo II aveva pubblicato, a vent’anni dalla Populorum Progressio di Paolo VI, l’enciclica Sollicitudo Rei Socialis sullo sviluppo economico e sociale dei popoli. In quello stesso mese iniziava l’Intifada dei palestinesi contro l’occupazione da parte dello Stato di Israele. Nel gennaio 1988 prendeva avvio la fase più radicale della perestroika, la “ristrutturazione” del sistema economico sovietico da parte del leader Mikhail Gorbaciov. Una certa idea di chiesa impegnata nel sociale e politico trovava in quegli anni sostegno dalla tesi (di provenienza statunitense) di una “terza ondata” di democratizzazione nella storia globale, tesi che favoriva l’azione del cattolicesimo e del papato come facilitatore della transizione da sistemi autoritari e dittatoriali a sistemi democratici con economie capitalistiche di libero mercato.


Cari amici e voi che ci seguite da lontano, eccoci a voi con questa lettera pasquale,

ormai diventata una consuetudine per tener vivo il legame che ci unisce e per esprimervi ciò che portiamo nel cuore, i nostri pensieri sulle "cose di Dio ", quelle cose che riguardano sempre anche il cristiano e l'uomo.

Nella lettera della Pasqua 1987, "Lasciamo agire il silenzio ", avevamo manifestato l'intenzione e avevamo espresso l'invito a fare silenzio. La conflittualità crescente nella chiesa, e soprattutto nella nostra chiesa italiana, imponeva questo silenzio di fronte alle troppe parole, a volte "parole come armi" che venivano lanciate, imponeva il silenzio come linguaggio della carità; poi quello che è avvenuto e avviene ancora, da fine estate a questi giorni, è noto a tutti: feroce critica, accuse gravi a molti fratelli, denunce a tribunali ecclesiastici, difese arroganti ...

Noi non vogliamo entrare in polemica e quindi vogliamo restare fedeli a quell'invito proposito di silenzio; però, continuando a "parlare la Parola", chiediamo a noi stessi e a tutti i fratelli di restare sotto la signoria della Parola, per sentirei tutti giudicati dall'evangelo di Gesù Cristo, evangelo potente ed efficace di colui che è innanzitutto il Signore della chiesa. La conflittualità tra frazioni del popolo di Dio è ormai diventata una lacerazione, una ferita, quasi una divisione: che cosa attendere?

Noi osiamo a questo punto attendere una parola dai pastori, dai vescovi; una parola che non sia condanna degli uni o degli altri, ma che innanzitutto chiami tutti all'umiltà, alla mitezza, alla carità reciproca: non lasciare andare le cose in balia di arroganti accuse ed esasperate difese, né finire per sancire la contrapposizione esistente. Nel campo del Signore il frumento e la zizzania crescono insieme perché così vuole il Signore e nessuno deve atteggiarsi a servo zelante co'n la volontà di estirpare prima del giorno del Signore le erbe che lui giudica cattive (cf. Mt 13.30).

Noi vorremmo che tutti i pastori sentissero la loro paternità non su una porzione soltanto, ma su tutti i cristiani, e la testimoniassero con sollecitudine e amore; vorremmo che i vescovi non identificassero la loro testimonianza del Risorto – testimonianza che è loro peculiare come successori degli apostoli - con il modo di testimoniare di qualcuno o di qualche frazione; vorremmo che tutti i cristiani imparassero, sotto la guida dei loro pastori, a trovare vie di confronto e di dialogo, nonostante la differenza delle scelte non nella fede ma nel modo di collocarsi nel mondo.

Una chiesa che fa degenerare la conflittualità in divisione, che vede schierati i pastori a favore di gruppi rende mostruoso il corpo di Cristo perché alimenta la crescita di una parte a scapito dell'altra e finisce per vivere della logica dell'inimicizia. Mai dei cristiani dovrebbero sentire, nei giorni del loro pellegrinaggio verso il Regno, qui nella storia, una chiesa matrigna, tutti devono invece avere in essa una madre che tutti ama, tutti corregge, di tutti ha misericordia. Non si tratta di auspicare un generico "vogliamoci bene": la carità cristiana infatti deve sempre essere carità intelligente

nello Spirito santo, carità che corregge la carnalità, l'arroganza di alcuni e risveglia la tiepidezza di altri, chiedendo a tutti di avere gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale accettò di svuotarsi per essere il servo obbediente, solidale con gli uomini fino alla morte, e alla morte ignominiosa e infamante della croce (cf. Fil 2.5 ss.). La memoria della croce che è presenza di Cristo Signore è resa presente nella storia e trasparente nella chiesa quando i suoi discepoli ne assumono i tratti del volere e dell'operare, sotto l'emblema assoluto, il solo discriminante: amarsi gli uni gli altri, perché da questo si riconoscerà chi è discepolo di Gesù (cf. Gv 13.35).

Ci si incontri tra fazioni, ci si ascolti, si cerchi di vedere nell'altro l'amore per il Signore vivente, si verifichi la capacità di rispondere a chi chiede conto della speranza che è nei cristiani (cf. l Pt 3. 15) e ci si acco.tga gli uni gli altri pur nelle inevitabili differenze di doni, servizi, operazioni, che sono una ricchezza voluta e distribuita dallo Spirito santo (cf. 1Cor 12.4-12). Perché sperare gli uni contro gli altri nella chiesa, quando il nostro compito ,di cristiani è sperare per tutti, a tutti portare la benedizione, vietandoci di maledire)'cf. Rm 12.14; 1Pt 3.9), ovunque passare annunciando e consegnando la pace?

L'evento pentecostale più manifesto in questa nostra generazione è stato certamente il Concilio Vaticano II che, rileggendo e annunciando l'evangelo nel nostro tempo, ci ha invitato all'unità tramite il vivere ecumenico, al rispetto delle diverse forme in cui il messaggio del Signore è vissuto e incarnato nelle chiese, ci ha chiamato a rinunciare alle ricchezze confessionali non essenziali per muoverci verso l'unica chiesa voluta dal Signore. Perché allora dobbiamo accusarci gli uni gli altri nella stessa chiesa, squalificandoci con l'applicazione esclusiva della denominazione cristiana

a una sola porzione di credenti?

Cristo Signore non trascende forse le forme storiche della sua comunicazione, recepite e vissute da una porzione o dall'altra? Cristo, l'unico crocifisso, non dev'essere lui la pietra angolare su cui siamo impiegati come pietre vive per l'edificazione della chiesa? Paolo ricordava ai cristiani di Corinto che dirsi di Pietro o di Paolo o addirittura di Cristo equivaleva a essere carnali, sarkikoi, e a vanificare le parole della croce (cf. l Cor l. 12-17). Non si rischia oggi di dividere allo stesso modo il corpo di Cristo in nome del successore di Pietro odierno o in nome del successore di Pietro precedente? perché vedere contrapposti un cristianesimo della Parola e un cristianesimo della presenza?

Un gesto dunque attendiamo, un gesto maturato nella preghiera, un gesto intelligente da parte dei pastori, che richiami tutti all'unità come la vuole il Signore nell'evangelo e come è testimoniata dalla grande tradizione ecclesiale.

Ma soprattutto vorremmo che non si dimenticasse che la chiesa vive di fede: ex fide vivit (Rm 1.17). C'è una grande novità nel rapporto chiesa-mondo, che si potrebbe esprimere in modo sintetico con le affermazioni: "la società oggi ha bisogno della chiesa ", oppure "questa chiesa serve ". Di fronte alla crisi di questa nostra epoca, crisi di ideologie, crisi del principio di autorità, la società in molte delle sue componenti, financo nei partiti, mostra di aver bisogno della chiesa - e arriva anche ad affermarlo apertamente - quasi che questa fosse capace di dare un supplemento

di anima alla società. C'è infatti una richiesta di fondazione religiosa del sociale e del politico e quindi la richiesta di un cristianesimo che accetti di declinarsi come etica. La chiesa sembrerebbe invitata a guidare il cammino degli uomini nella società in vari modi: con l'arbitrato politico come in Nicaragua o in Polonia, con la protesta rivoluzionaria nei confronti del potere come nelle Filippine e altrove, con scuole di formazione politica o con l'organizzazione della carità come in Italia e in altri paesi occidentali. Così la chiesa oggi in alcuni paesi sembra ancora segnata dalla secolarizzazione del cristianesimo, mentre in altri appare caratterizzata da un 'accondiscendenza verso una società che desidera un abito religioso, la religione come sua necessaria fondazione. Ma se la società ha bisogno della chiesa come religione e la chiesa si offre in vari modi a questa richiesta, occorre ricordare che compito della chiesa è vivere di fede, è far risuonare la chiamata alla sequela e predicare Cristo, che è oltre l'organizzazione della carità. La fede cristiana non può essere ridotta a un fare il bene, né a un umanesimo che dia un supplemento di anima alla società.

Perfino l'uso del testo dell'A Diogneto, che designa i cristiani come anima del corpo può risultare oggi ambiguo. La fede esige di essere predicata e vissuta, la fede esige che i cristiani seguano radicalmente il Signore, la fede richiede di essere lei sola apportatrice di salvezza, la fede richiede la missione dei cristiani nel mondo, senza arroganza ma con la consapevolezza di avere una speranza per tutti gli uomini.

A volte ci pare di vedere delinearsi una lottizzazione della chiesa: alle parrocchie è sempre più demandata l'organizzazione della carità, ai movimenti sempre più la missione nel mondo; ma da questa separazione, da questa lottizzazione delle competenze potrà derivare solo una patologia per la chiesa. Osservare i comandamenti, fare il bene, servire i fratelli attraverso le attività parrocchiali, il volontariato, l'impegno per il terzo mondo, la carità organizzata: ecco gli inviti oggi dominanti nella nostra chiesa. Tutte cose buone, doverose e essenziali, ma se poi non si è più capaci di percepire su di sé e sugli altri lo sguardo di amore di Gesù, se non si è più capaci di seguire il Signore e basta, di andare dietro a Gesù concretamente con il dono di tutta una vita, se la fede, l'adesione al Risorto non ha il primato su tutto, allora si forgiano cristiani che sono come il giovane ricco dell'evangelo, cui manca una sola cosa: seguire totalmente e radicalmente il Signore (cf. Mc 10.21). Attenzione, perché in questo modo la chiesa di domani sarà una chiesa attiva, efficace nella storia, ma che rischia di anteporre il proprio impegno e la propria osservanza alla risposta obbediente alla chiamata che Dio rivolge a seguire Gesù, senza determinare antecedentemente le prestazioni.

Senza adesione amorosa al Signore Gesù, senza la fede nel Signore della storia, anche la carità rischia di raffreddarsi (cf. Mt 24.14). L'efficiente apparato organizzativo delle opere potrà anche continuare a funzionare, ma la carità in tra-ecclesiale, l'amore reciproco tra cristiani, esempio che il Signore stesso ci ha lasciato come comandamento nuovo e come testimonianza di fronte al mondo, si andrà a poco a poco spegnendo. Forse la via di uscita da una contrapposizione tra frazioni di credenti, che può solo provocare ferite"anche mortali alla carità, ci è offerta dalla promessa fattaci dal Signore risorto: "Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo" (Mt 28.20). Non siamo noi a essere con Lui, ma è Cristo a essere con noi, con tutti noi: nessun gruppo, nessuna comunità, nessuna realtà ecclesiale può ergersi a esclusivo autentico interprete, paladino, difensore e annunciatore di colui che è il Signore di tutta la chiesa. La coscienza di questa verità ci porterebbe 'non più a dividerci per poter essere con Dio, bensì a ritrovarci, a riscoprirci fratelli perché Dio è con noi, nell'unità dell'amore di Cristo crocifisso e risorto.

Carissimi amici, impariamo nuovamente la mitezza, la carità, l'umiltà, avendo fede in colui che amiamo senza averlo visto, e nel quale esultiamo di gioia indicibile e gloriosa (cf. lPt 1.8)!

i fratelli e le sorelle di Bose
10 aprile 1988, domenica in Albis



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