Dare frutto… senza vederlo

Giovanni Frangi
Giovanni Frangi

17 ottobre 2025

Dal Vangelo secondo Giovanni - Gv 12,24-28 (Lezionario di Bose)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: 24«In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. 25Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. 26Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà. 27Adesso l'anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest'ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest'ora! 28Padre, glorifica il tuo nome». Venne allora una voce dal cielo: «L'ho glorificato e lo glorificherò ancora!».


“Se invece muore porta molto frutto”. Ignazio di Antiochia, vescovo e martire, di cui oggi la chiesa ci invita a fare memoria, ha parlato di sé, andando verso il martirio, esprimendo il desiderio di essere “pane puro di Cristo”, macinato dai denti dei leoni. 

“Se invece muore porta molto frutto”. Forse Ignazio si sarà ricordato di queste parole andando al martirio, o forse non ci avrà pensato, nel solo desiderio di essere conforme al suo Signore anche nella morte violenta. Sì, forse al frutto non ci pensava, gli bastava seguire il Signore Gesù e quella voce che sentiva mormorare dentro di sé: “Ignazio, vieni al Padre”.

E noi al frutto ci pensiamo? Oggi se ne parla in termini di “generatività”; Gesù fa ricorso, per dire questo, alla parabola del seme, che per portare frutto deve morire come seme, per dare luogo alla pianta. E forse non è male pensare anche al frutto, alla possibilità della fecondità della nostra vita, al desiderio che la nostra vita possa far vivere anche altri. Solo, forse, perché la dinamica sia veramente vitale per tutti, occorre rinunciare alla pretesa di vederne il frutto. Gesù ci dice che il frutto ci sarà se una vita viene spesa per amore, ma non dice quando e come si manifesterà il frutto. Tertulliano diceva che “il sangue dei martiri è seme di cristiani”: quei martiri il frutto del loro martirio non lo avrebbero visto, ma ci sarebbe stato.

Altrimenti, se si pensa solo alla visibilità del frutto, rischiamo di diventare preda dello scoraggiamento: è o è stato tutto inutile? Misurare il frutto: quando, come, dove, può prendere l’ansia di dare senso alla propria vita sulla base del frutto visibile che essa porta. Invece no, il frutto è nelle mani del Signore, nei suoi tempi, nei suoi modi, nelle sue vie che spesso non sono le nostre vie, secondo i suoi pensieri che spesso non sono i nostri pensieri (cf. Is 55,8-9).

E allora si impara, a caro prezzo, a distogliere lo sguardo da sé stessi per porlo solo sul Signore, sulla comunione con lui, sul dono che ci viene fatto di una vita senza fine che possiamo già gustare in questa nostra povera esistenza, e che si manifesta in una pace e in una gioia che il mondo non può dare (cf. Gv 14,27).

Così la Lettera agli Ebrei esorta il credente a tenere “lo sguardo fisso su Gesù”, il quale “di fronte alla gioia che gli era posta dinanzi si sottopose alla croce, disprezzando il disonore” e ora siede alla destra del Padre (Eb 12,3). E il testo continua, con una esortazione che è anche un incoraggiamento: “Pensate attentamente a colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità dei peccatori, perché non vi stanchiate perdendovi d’animo. Non avete ancora resistito fino al sangue nella lotta contro il peccato” (Eb 12,3-4). “Non avete ancora resistito fino al sangue”: altre tribolazioni e sofferenze, forse anche più intense, attendono il credente, ma la sua forza viene dal Signore (cf. Gv 16,33), il quale, come ci ricorda il testo della liturgia per i martiri, “ha dato agli inermi la forza del martirio”.

Ignazio ha guardato alla gioia che gli era posta davanti come alla perla preziosa e al tesoro che aveva trovato (cf. Mt 13,44-46). E noi abbiamo scoperto, anche noi, questo tesoro?

sorella Cecilia