Vigilare nell’ignoranza

29 novembre 2020

Mc 13,33-37
I domenica di Avvento
di Luciano Manicardi

In quel tempo Gesù disse alle folle: 33Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. 34È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare. 35Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; 36fate in modo che, giungendo all'improvviso, non vi trovi addormentati. 37Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!».


L’annata liturgica B che oggi inizia presenterà come testo evangelico domenicale pericopi tratte essenzialmente dal vangelo secondo Marco. E la prima domenica di Avvento si apre con la conclusione del discorso che Gesù rivolge a quattro suoi discepoli (Pietro, Giacomo, Giovanni e Andrea) stando sul monte degli Ulivi, “seduto di fronte al tempio” (Mc 13,3). La breve pericope marciana (appena cinque versetti: Mc 13,33-37) si presta perfettamente a orientare lo sforzo spirituale richiesto a ogni credente nel tempo di Avvento: vigilare. L’imperativo “vegliate” ricorre in tre versetti (33.35.37) e, in quello finale, viene esteso a un uditorio che va ben oltre i quattro primi destinatari delle parole di Gesù e raggiunge tutti i lettori del vangelo e tutte le comunità cristiane: “Quello che dico a voi lo dico a tutti: vegliate!” (Mc 13,37).

La parabola narrata da Gesù parla di un uomo che parte per un viaggio all’estero e affida la propria casa ai suoi servi incaricando in particolare il portiere del compito di vigilare (v. 34). Il padrone tornerà ma non si sa quando: pertanto, per non essere sorpresi nel sonno al suo ritorno, occorre vegliare (vv. 35-36). In filigrana si coglie l’allusione a Gesù, il Signore, che se ne va, e alla comunità, la casa che egli ha lasciato affidandola alla cura dei suoi discepoli, ciascuno con il proprio compito. La chiesa è così situata nella storia come sentinella che veglia nell’attesa della venuta gloriosa del Signore. Venuta certa, ma di cui si ignora il quando: “Quanto a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli in cielo né il Figlio, eccetto il Padre” (v. 32). E proprio questa ignoranza (“non sapete quando è il momento”: v. 33; “non sapete quando il padrone di casa ritornerà”: v. 35) esige la vigilanza. Vigilanza che non può ovviamente essere intesa letteralmente come un materiale non dormire, tanto più che la venuta del Signore viene situata, nel nostro testo, in una delle quattro veglie in cui i romani suddividevano la notte. L’allusione va piuttosto intesa in senso metaforico alla luce della simbolica della notte presente nell’Antico Testamento e nel giudaismo: “Il mondo presente è paragonato alla notte” afferma un testo midrashico ripetendo una sorta di leit motiv della letteratura rabbinica. Il momento del ritorno del padrone di casa sarà la notte. E la notte è il tempo in cui occorre tenere gli occhi ben aperti, in cui è più difficile non lasciarsi sopraffare dal sonno, in cui occorre lottare contro la pesantezza del corpo e dell’animo. In cui più che mai si deve attuare la vocazione dei cristiani a essere luce. La notte è simbolo di tempi bui, di tenebre interiori e storiche, personali e comunitarie, civili ed ecclesiali. La venuta del Signore non le abolisce, ma è proprio in esse che egli viene già oggi, nel quotidiano della vita. Si tratta di abitare la notte acuendo lo sguardo spirituale, lottando contro la pigrizia, vigilando. La notte è il tempo della tentazione e questo tempo è il nostro oggi. L’attesa della venuta del Signore diviene così sforzo di discernimento dei segni della sua presenza.

Possiamo allora aprire le meditazioni evangeliche di questa annata liturgica e di questo tempo di Avvento cercando di andare a fondo nella realtà della vigilanza. E questo nella coscienza che la vigilanza è la matrice di ogni virtù cristiana, la tela di fondo che dà unità alla fede del cristiano. Un padre del deserto ha affermato: “Non abbiamo bisogno di nient’altro che di uno spirito vigilante” (abba Poemen). E Basilio di Cesarea: “Proprio del cristiano è vigilare ogni giorno e ogni ora ed essere pronto nel compiere perfettamente ciò che è gradito a Dio, sapendo che all’ora che non pensiamo il Signore viene”. La vigilanza conduce il cristiano ad attuare una memoria mortis non disperata, ma vissuta alla luce del Signore che viene.

“Fate attenzione”, traduce la Bibbia CEI. In realtà il testo suona letteralmente: “Guardate”, “Tenete gli occhi ben aperti”. Gerolamo traduce Videte. Nel vangelo il comando di guardare è invito a esercitarsi a vedere nel buio, a entrare nel movimento dell’attenzione e della vigilanza, movimento che non solo non nega, ma esige il coinvolgimento di tutto il corpo. È il corpo che rivela la qualità spirituale. E non a caso vigilanza è sempre accostata a realtà corporee elementari e quotidiane: cibo, bere, sonno, sessualità, relazioni con gli altri (cf. Lc 21,34). Dove vigilanza non è controllo mediante astensione o diminuzione o fuga, che suppone spesso odio di sé, ma è equilibrio. Anche nella pagina evangelica la vigilanza nell’attesa del Signore si accompagna naturalmente alla capacità di guardare la realtà concreta, la realtà di un albero di fico che, quando i suoi rami diventano teneri e spuntano le foglie, indica che l’estate è vicina (Mc 13,28).

Dicevamo che l’imperativo a vigilare si fonda sull’ignoranza del “quando” della venuta gloriosa del Signore, ma questo implica una seconda ignoranza: il quando della nostra morte. Anch’essa è evento certo, ma incerto ne è il quando. Vigilanza è anche coscienza di mortalità.

Ma un’altra ignoranza motiva la necessità della vigilanza. Un passo della Vita di Antonio scritta da Atanasio recita: “Nessuno condanni il prossimo, né si ritenga giusto finché non venga il Signore che scruta i segreti. Spesso infatti noi stessi non ci rendiamo conto di quel che facciamo; ma se noi non ne siamo coscienti, il Signore però conosce ogni cosa”. La vigilanza nasce anche dalla coscienza della nostra ignoranza di noi stessi, dalla coscienza della nostra incoscienza, della nostra cecità o miopia. Per questo la vigilanza è vigilanza su di sé: “State attenti a voi stessi” (Lc 21,34), “Badate a voi stessi, lett.: Guardate voi stessi” (2Gv 8), “Vigila su te stesso” chiede Paolo a Timoteo (1Tm 4,16). Come se dicesse: diventate coscienti di voi stessi. Sappiate quel che fate, chi siete e perché vivete. Siate totalmente in ciò che vivete. Ma come vedere se stessi? Credendo di essere sempre alla presenza del Signore che scruta il nostro cuore. La vigilanza è porsi davanti agli occhi della parola di Dio nella lectio divina: quella parola che ci ri-guarda, ci vede, ci scruta come spada a doppio taglio (cf. Eb 4,12-13), ci mette a nudo e così, consentendoci di vederci davanti a Dio, in verità, ci immette in cammini di conversione.

La vigilanza su di sé è il cercare di vivere alla presenza di Dio, nel ricordo della sua parola, così che i nostri gesti e parole siano resi maggiormente conformi al Vangelo. Il grande lavoro spirituale è il lavoro su di sé, che ha come tappa decisiva la conoscenza di sé: “Conosci te stesso prima di ogni altra cosa. Non c’è nulla infatti di più difficile del conoscere se stessi, nulla di più impegnativo. Quando conosci te stesso allora potrai anche conoscere Dio” (Nilo di Ancira). Per dirla con Gregorio Magno: “quando noi siamo agitati da eccessive preoccupazioni, veniamo condotti fuori da noi stessi, siamo sì ancora noi stessi, ma non siamo più con noi stessi, perché perdendo di vista noi stessi, andiamo vagando altrove”. Non perdere di vista se stessi, ecco la vigilanza, altrimenti rischiamo di non essere noi a vivere, ma di lasciarci vivere, di essere noi, ma non con noi, bensì fuori di noi. Non perdere il contatto con noi stessi, questo implica la vigilanza.

La vigilanza è poi la maniera specificamente cristiana di vivere il rapporto con il tempo. Ovvero: noi non abbiamo controllo né dominio del nostro tempo (non sappiamo il quando) ma possiamo vivere i frammenti del presente come occasioni per vivere il tutto del vangelo. Come se il tutto del mondo e della vita si concentrasse nel momento presente. Il non sapere il quando della morte diviene sapienza di chi vive l’oggi come unico luogo per realizzare il tutto dell’amore. E così la vigilanza redime il tempo, insegna la sapienza di vivere sensatamente i giorni, pochi o tanti, brevi o lunghi, che ci sono dati su questa terra.

La pagina evangelica ricorda che è nel buio che si esercita la vigilanza. Il vigilante è come la sentinella a cui si rivolge la domanda: “Sentinella, a che punto è la notte?” (Is 21,10). È un esperto della notte, cosciente delle tenebre che sono anzitutto in lui, uno che vede il proprio peccato. È uno che fa attenzione a se stesso e che custodisce il proprio cuore secondo la parola del sapiente in Pr 4,23: “Più di ogni cosa degna di cura, custodisci il cuore, perché da esso sgorga la vita”. La luce della vigilanza risiede sotto la coltre di tenebre e buio del peccato che ci abita, che deve essere non rimosso ma attraversato, perché da esso ci verrà anche il discernimento per una vigilanza umana ed evangelica sulle persone. Ogni essere umano porta in sé la forma dell’intera umanità: imparare a conoscersi, a leggersi, a guardarsi, significa imparare a conoscere l’uomo, ogni uomo: “Tu sei il mondo del mondo, scrive un antico padre della chiesa, contempla dunque in te stesso l’intera creazione e tutto considera riferendoti a te stesso” (Nilo di Ancira). Scendendo con lo sguardo penetrante fin nei recessi del proprio cuore e del proprio peccato, attraversando il buio e l’enigma che è in noi, troveremo anche, più profondo della sofferenza che il male che è in noi ci procura, la presenza del Signore, il Regno, che è in noi, come ricorda Gesù in Lc 17,21: “Il Regno di Dio è dentro di voi”.