Fate attenzione
3 agosto 2025
XVIII domenica nell’anno
Luca 12,13-21 (Qo 1,2; 2,21-23)
di Luciano Manicardi
In quel tempo 13Uno della folla gli disse a Gesù: «Maestro, di' a mio fratello che divida con me l'eredità». 14Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?». 15E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell'abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede».
16Poi disse loro una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. 17Egli ragionava tra sé: «Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? 18Farò così - disse -: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. 19Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!». 20Ma Dio gli disse: «Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?». 21Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio».
Il lavoro è per l’uomo e non l’uomo per il lavoro; i beni materiali sono per l’uomo e non l’uomo per i beni materiali, la dimensione del fare non deve compromettere o intaccare l’umanità della persona: forse potremmo sintetizzare così il messaggio delle letture di questa domenica. Che mettono in guardia l’uomo contemporaneo dal far consistere la propria vita unicamente nel fare e nell’avere, nel produrre e nel possedere. Vi è un aspetto di assurdità, rileva Qohelet (Qo 1,2; 2,21-23), nell’affannarsi e tribolare dell’uomo sotto il sole, essendo chiaro che ciò che l’uomo guadagna dal suo lavorare affannato e incessante passerà ad altri che non vi hanno per nulla faticato. Nel vangelo (Lc 12,13-21) Gesù mette in guardia dalla brama di possesso, dalla cupidigia. Il termine greco utilizzato, pleonexía (Lc 12,15) significa “avere più di un altro”, “ambire di più”, e comporta il confronto sociale, la concorrenzialità, la competitività, la logica orizzontale e soffocante del paragone, matrice della perniciosa invidia. E la messa in guardia di Gesù è fondata sulla memoria della precarietà della condizione umana. “Questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita” (Lc 12,20). La morte appare, sia in Qohelet che nel vangelo, come la realtà che annichilisce i disegni di riuscita esistenziale nella via del possesso e del fare, della ricchezza e delle opere prodotte, svelando tale riuscita come fallace e illusoria. Se opportunamente ricordata, la morte può esercitare un importante magistero per la vita riconducendo l’essere umano al realismo, dunque all’umiltà e alla sapienza. Chi vuole conoscersi deve interrogarsi sulla morte perché essa svela all’uomo ciò che veramente è essenziale e ha senso nella vita. Nonostante le teorizzazioni e le sperimentazioni della cosiddetta società post-mortale, resta ancora e sempre vera l’affermazione lapidaria di sant’Agostino: Incerta omnia, sola mors certa (“Tutte le cose sono incerte, sola la morte è certa”). La morte è come una bussola per il vivente: grazie ad essa egli può orientarsi nell’esistenza. La prima lettura poi, fornisce l’occasione di una riflessione sul modo di vivere il tempo e il lavoro oggi.
La seconda parte della pericope di Qohelet (2,21-23) riguarda il lavoro, la fatica del lavorare, ma forse anche quella fatica che consiste nel vivere e nel mestiere stesso di stare al mondo. In ogni caso su tale realtà è proiettata la luce disillusa che proviene dalla prima parte della pericope (1,2), la provocatoria ouverture del libro che proclama che tutto è hebel. Il termine, che ha come senso base quello di soffio, è stato tradotto con vanità, vuoto, fugacità, futilità, assurdo, spreco … E tale giudizio radicalmente disincantato e disilluso viene proiettato sul lavoro sia perché il frutto del lavoro sarà ereditato da chi non ha faticato per nulla, sia perché il lavoro (e la vita stessa: “tutti i suoi giorni”) è fatica fisica e psicologica che produce “dolori e fastidi penosi” e spesso nemmeno la notte riesce ad apportare riposo. C’è qualcosa per cui valga la pena agire, lavorare, tribolare e, in definitiva, vivere? Una risposta sapiente la fornisce il poeta Fernando Pessoa nella poesia Mare portoghese: “Ne valse la pena? Tutto vale la pena se l’anima non è piccina”. Per Qohelet occorre lavorare e svolgere il mestiere di abitare il mondo perché questa è la sorte che Dio ha destinato all’uomo (3,10) e perché l’uomo può dare un senso al suo fare condividendo e donando. Se “il lavoro prende la direzione del dono” (Jacques Ellul), l’uomo quantomeno è liberato dalla frustrante prospettiva di lasciare i frutti del proprio ingegno e della propria fatica a non si sa chi, magari una persona ottusa e stolta (2,18-21). Il testo suggerisce anche la possibile deriva disumanizzante del lavoro, rompendo con la retorica che lo vuole sempre votato alla nobilitazione dell’uomo. La frase “sono un uomo e tutto ciò che è umano mi riguarda” (homo sum: humani nihil a me alienum puto), divenuta emblema dell’atteggiamento umanistico, è tratta dalla commedia di Terenzio (II sec. a.C.) Il punitore di se stesso. Essa costituisce la risposta di Cremete a Menedemo che, infastidito dalle osservazioni fatte da quello al suo stile di vita, lo rimprovera di essere curioso: “Hai tanto tempo da perdere, Cremete, che non pensi agli affari tuoi e ti occupi di quelli degli altri, che non ti riguardano affatto?”. La frase è dunque un elogio della buona curiosità: della curiositas che è cura e passione per l’umano fino a diventare empatia. Cremete infatti si preoccupa dei ritmi di lavoro esagerati fino alla disumanità di Menedemo e lo interroga cercando di riportarlo al buon senso di ritmi più umani. Dopo l’iniziale resistenza, Menedemo gli confessa che quel superlavoro, quel lavoro folle, incessante, frenetico, era la punizione che egli stava infliggendo a se stesso per il suo comportamento eccessivamente rigido che aveva condotto suo figlio ad andarsene da casa. Nel testo di Terenzio l’abnormità del ritmo lavorativo è spiegata psicologicamente come punizione che un individuo si autoinfligge riducendosi a schiavo. Nella nostra contemporaneità i ritmi di lavoro stressanti e alienanti sono legati, in particolare, a due delle forme con cui viene vissuto il tempo, l’accelerazione e la produttività. Queste dimensioni dominano il mondo del lavoro e rappresentano ormai una forma di totalitarismo schiavizzante non percepito come tale, ma scambiato per fenomeno naturale, quando invece è una costruzione sociale e rientra nel dominio che controlla la società sotto le regole del capitalismo. È totalitario ciò che esercita una potente pressione sulla volontà e l’agire dei singoli; influenza e condiziona pesantemente la loro vita familiare, affettiva, sociale, invade l’anima e la psiche; è onnipervasivo e riguarda anche istituzioni e ogni aspetto della vita sociale; instilla un senso di impotenza e induce a ritenere che non ci sia niente da fare, che le cose non possano essere cambiate. Davvero, “tutto è vano”. Il totalitarismo del tempo accelerato e produttivo giunge a rendere colpevoli i suoi sudditi (cioè tutti noi): se siamo in ritardo, se non siamo abbastanza efficaci, se non rispondiamo agli standard richiesti dalla produzione ci sentiamo in colpa, ci affliggiamo perché non sappiamo gestire bene il tempo (falliamo l’“ottimizzazione” dei tempi) e non siamo abbastanza performativi. Interiorizziamo l’accelerazione come un dato necessario e ineluttabile e, se non ne siamo all’altezza, ce ne facciamo una colpa. Vittime colpevolizzate!
Nel vangelo Gesù, interpellato da un anonimo, rifiuta in modo secco di intervenire in una disputa tra fratelli per questioni di eredità (Lc 12,13-14), quindi, in modo accorato (“Badate e guardatevi da ogni cupidigia”) mette in guardia contro la cupidigia (12,15). Gesù, che ha appena esortato a non aver paura di chi può uccidere il corpo ma poi non può più fare nulla (12,4), ora si mostra molto preoccupato di un nemico la cui potenza è infinitamente più letale perché può impossessarsi dell’anima e sottrarre la vita ingannando l’uomo e conducendolo a vivere una parvenza di vita: “anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni”. Dal piano delle penose dispute famigliari sulla divisione di un’eredità, Gesù risale al cuore: egli mette in guardia tutti dalla cupidigia, dalla brama di possedere. La cupidigia proviene dal cuore (Mc 7,22) ed “è idolatria” (Col 3,5). E dalla materiale eredità, Gesù passa a denunciare quella cupidigia che impedisce di “ereditare il Regno di Dio” (Ef 5,5). L’idolatria dà illusioni di vita, ma produce morte. La vita non consiste nei beni, dice Gesù. E nasce per noi la domanda: In che cosa faccio consistere la mia vita? Da cosa la faccio dipendere? Che cosa la manda avanti ogni giorno? “Ma che è mai la vostra vita?” chiede Giacomo ai ricchi che dicono “Oggi o domani andremo nella tal città e vi passeremo un anno e faremo affari e guadagni”, mentre non sanno e non possono sapere “che cosa sarà domani” (Gc 4,13-14). Questo mettere le mani sul futuro tentando di controllare il tempo e di gestirlo a piacimento, è ciò che viene rimproverato anche al ricco insensato della parabola narrata in Lc 12,16-21. La cecità a cui la ricchezza dà origine è evidenziata nella figura del ricco “senza intelligenza” (áphron). Egli pensa di possedere anche ciò che per definizione è indisponibile: il tempo, il futuro, la vita. E il binomio ricchezza – stupidità è espresso in modo tale che il “pieno” della ricchezza cerca di camuffare il desolante “vuoto”, la penosa carenza di intelligenza e di sapienza del ricco. Se l’accumulo di ricchezze, così come l’ottenere posizioni sociali di prestigio, l’aver potere e considerazione, l’essere famosi, possono essere forme di esorcizzazione della morte, in realtà esse falliscono il proprio della vita che richiede l’assunzione della sua finitezza per poter cogliere l’oggi come grazia e vivere ogni attimo presente come il frammento che ci viene concesso e in cui possiamo vivere il tutto che dà senso al nostro vivere e che non lo satura di cose ma lo riempie di senso. Lo riempie accogliendolo nella sua limitatezza e mancanza come invito al desiderio, all’apertura, alla relazione, all’incontro, al dono. E così libera l’uomo dalla soffocante prigionia del detestabile ego che lo conduce ad arricchire per sé, in una triste solitudine.