La porta d’ingresso

Giovanni Frangi
Giovanni Frangi

24 agosto 2025

XXI domenica nell’anno
Lc 13,22-30 (Is 66,18-21)
di Luciano Manicardi

In quel tempo Gesù 22passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme. 23Un tale gli chiese: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?». Disse loro: 24«Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno. 25Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: «Signore, aprici!». Ma egli vi risponderà: «Non so di dove siete». 26Allora comincerete a dire: «Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze». 27Ma egli vi dichiarerà: «Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia!». 28Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori. 29Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. 30Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi».


La prima lettura di questa domenica (Is 66,18-21) presenta un messaggio di grande universalismo. L’ultimo capitolo che chiude la raccolta di profezie poste sotto il nome di Isaia, annuncia la venuta del Signore e afferma che essa è volta al raduno di “tutte le genti”: quattro volte ricorre il termine goyim “genti” (vv. 18.19bis.20). L’estensione universale è indicata anche dall’espressione “tutte le lingue” (v. 18) e “le isole lontane” (v. 19). La dimensione universale si sviluppa attraverso un movimento di sistole e diastole, di convergenza e di dilatazione, ovvero di raduno e di invio in missione. Al raduno di tutte le genti (v. 18) segue l’invio di messaggeri alle popolazioni di sette paesi (v. 19) che ritroviamo nella cosiddetta “tavola dei popoli” in Gen 10, ovvero tra i discendenti di Noé. Questoraduno universale di popoli trova in Gerusalemme il suo punto di incontro. Questo carattere della prima lettura indirizza a cogliere l’unità con la pagina evangelica (Lc 13,22-30) nell’affermazione che nel Regno di Dio entreranno genti provenienti dai quattro angoli della terra (“Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e sederanno a mensa nel regno di Dio”: Lc 13,29). Questa venuta escatologica di popoli trova in Gesù la porta stretta che dà accesso alla salvezza (“Io sono la porta”: Gv 10,7).

Il vangelo si apre con una notazione di tipo geografico, una sorta di sommario che inquadra l’episodio successivo all’interno del cammino di Gesù verso Gerusalemme (v. 22). Si tratta di una delle tre indicazioni lucane che parlano del cammino di Gesù specificandone la meta: Gerusalemme, “la città che uccide i profeti” (Lc 13,34). Le altre si trovano in Lc 9,51 e 17,11. Gesù sta seguendo il cammino stretto e angusto che lo porterà a Gerusalemme, cioè alla croce salvifica. E, stando al terzo evangelista, egli ha piena coscienza del senso del cammino che sta percorrendo: “Io scaccio demoni e compio guarigioni oggi e domani e il terzo giorno ‘sono compiuto’ (teleioûmai: la Bibbia CEI traduce: “la mia opera è compiuta”). Però è necessario che oggi, domani e il giorno seguente io prosegua nel cammino perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme” (Lc 13,32-33). Queste parole, che seguono immediatamente il nostro brano liturgico, indicano bene anche il carattere dell’insegnamento che Gesù sta dando nel suo camminare verso la Città santa. Se nel v. 22 Luca dice che l’attività consueta di Gesù è la combinazione di cammino ed insegnamento, possiamo dire che certo egli dona insegnamenti mentre percorre la sua strada, mentre attraversa città e villaggi, ma in profondità dobbiamo comprendere che il suo stesso cammino è insegnamento. La determinazione che lo spinge e lo motiva in profondità, che gli consente di affrontare “a muso duro” (cf. Lc 9,51: “rese duro il suo volto per andare a Gerusalemme”) le opposizioni che sa che lo attendono e le sofferenze che gli potranno venire inflitte è come se trasparisse dal suo stesso incedere deciso, dal suo corpo teso alla meta, dalla contrazione dei muscoli facciali, e non solo dalle parole lucide e impietose che pronuncia a più riprese. Se egli invita chi cerca la salvezza a “entrare per la porta stretta”, ovvero a prepararsi ad affrontare prove e sofferenze, ostacoli e difficoltà, lo fa mostrando se stesso che segue il cammino angusto e stretto. Il suo insegnamento è non solo udibile dalle sue parole ma anche visibile nel suo corpo, nella sua persona. E un’occasione di insegnamento gli è offerta dalla domanda che “un tale” gli pone circa il numero di coloro che raggiungono la salvezza: “Sono pochi quelli che si salvano?” (v. 23). Gesù non risponde direttamente ma toglie alla domanda la dimensione astratta e disimpegnata che potrebbe rivestire e ne fa l’occasione di un’esortazione pratica, concreta, coinvolgente: “Sforzatevi (o “lottate”: agonízesthe) di entrare per la porta stretta”. Il testo parallelo di Matteo parla di due porte e due vie, una larga che conduce alla perdizione e una stretta che conduce alla vita (Mt 7,13-14). Viene così espresso in modo più chiaro il tema della scelta, della propensione umana che conduce molti a scegliere la porta larga e comoda mentre solo un piccolo numero, una minoranza, opta per la porta angusta e scomoda. Nella versione lucana Gesù parla di sforzo da mettere in atto qui e ora se si vuole percorrere la via della salvezza. E lo sforzo è un esercitare forza nei propri confronti, sentendo anche fisicamente la fatica, la tensione, il dolore, il prezzo che costa tale cammino. Tale sforzo è anche una lotta, un combattimento aspro ancora una volta con se stessi e la fede richiede tale lotta: anzi, per Paolo la fede è chiamata a divenire lotta: “Combatti (agonízou) la buona battaglia (agôna) della fede” (1Tm 6,12). Se la lotta della fede ha valenza escatologica ed è orientata alla “salvezza” (1Ts 5,9), alla “vita eterna” (1Tm 6,12), tuttavia l’insegnamento di Gesù comprende una dimensione più quotidiana e intravede un nemico non solo del cammino verso il Regno, ma del cammino esistenziale, del cammino stesso della realizzazione umana. E il nemico da combattere è quello che possiamo chiamare il demone della facilità e che nella nostra contemporaneità possiamo vedere operante in un gran numero di situazioni.Parlo di demone perché mi pare che sia una potenza ammaliatrice, una dominante che affascina e ipnotizza, seduce e incanta molti, e solo pochi ne restano immuni. La dialettica pochi-molti presente nel testo evangelico (vv. 23-24) la possiamo trasporre nel nostro oggi applicandola alla scelta, e ancora prima, al sentire che porta molti a reagire a molte situazioni dicendo “è difficile” e dunque a sottrarsi all’incontro-scontro con la realtà percepito come problematico, doloroso e che ci tocca in profondo obbligandoci a un faccia a faccia con noi stessi. Ma non vi è impresa umana significativa che non comporti difficoltà, sforzi, fatiche, pazienza, fallimenti, ricominciamenti, contraddizioni, scacchi, rinunce, sofferenze: la costruzione di un’amicizia, di un amore, di una famiglia, di una relazione genitoriale, di una carriera lavorativa, di un rapporto pedagogico, di un impegno politico o sociale. E così è pure per la vita cristiana. C’è una porta stretta da attraversare, non si può servire Dio e la ricchezza, è attraverso molte tribolazioni che si entra nel Regno di Dio. Si impone pertanto un movimento di resistenza alla cultura della facilità, dell’immediatezza, che spoglia la realtà della sua “durezza” che è vitale per la maturazione umana. Il Gesù che ha intrapreso con risolutezza il cammino verso Gerusalemme ha assunto e interiorizzato la prospettiva della difficoltà e respinto la tentazione della facilità (cf. Lc 13,33). Gli annunci della passione (Lc 9,22; 9,43-44; 18,31-33) dicono come Gesù abbia introiettato la difficoltà che il suo cammino esistenziale comporta e proprio da questa assunzione trovi forza per proseguire il cammino con perseveranza. Evitare la porta stretta e la lezione che la durezza della realtà può impartire all’essere umano, svilisce la persona, la indebolisce, la svuota di energia. I molti che cercheranno di entrare, dice Gesù, “non lo potranno”, “non ne avranno la forza” (ouk ischýsousin). Notiamo poi che la porta di cui parla Gesù chiede il solo movimento dell’ingresso. Non è la porta da cui si esce e attraverso cui poi si rientra: è porta che prevede il solo movimento unidirezionale dell’entrata. E prima che venga chiusa definitivamente (cf. Lc 13,25) essa è anche invito all’ingresso. Come non ricordare la porta della legge di cui parla Kafka ne Il processo, una porta sempre aperta eppure mai varcata dall’uomo di campagna che passa l’intera vita nell’attesa e alla fine della vita si sente dire dal guardiano: “Qui nessuno poteva ottenere di entrare poiché questa entrata è riservata solo a te. Adesso vado e la chiudo”. Una porta aperta-chiusa: oggettivamente aperta, ma al tempo stesso chiusa nel sentito dell’uomo di campagna. C’è un invito alla responsabilità e alla decisione nelle parole di Gesù. Perché viene il momento del troppo tardi. Viene il tempo in cui non c’è più tempo. E la chiusura della porta diviene svelamento di verità di coloro che sono rimasti chiusi fuori. Le loro rimostranze vengono rigettate: “Non so di dove siete” (vv. 25.27). Essi avanzano pretese, affermano il loro diritto a entrare in virtù del fatto che hanno mangiato e bevuto in sua presenza. È interessante notare che l’espressione “mangiare davanti a” la si ritrova in Lc 24,43 a designare il pasto preso da Gesù con i discepoli di Emmaus. Possiamo ipotizzare che vi sia un riferimento eucaristico e che dietro alla “pretesa” di entrare vi siano cristiani che hanno partecipato all’eucaristia, hanno anche ascoltato l’insegnamento di Gesù (“tu hai insegnato sulle nostre piazze”), ma questo non ha inciso nelle loro vite e non li ha condotti a compiere lo sforzo della reale e quotidiana sequela a caro prezzo del loro Signore. La salvezza non è un privilegio e ad essa non si accede per diritto di nascita o in base a pratiche liturgiche, ma richiede un’assunzione di responsabilità, una scelta che orienta l’intera esistenza in quella pratica dell’umano che Gesù ha vissuto radicalmente, fino alla fine.