Semplici servi

Giovanni Frangi
Giovanni Frangi

5 ottobre 2025

XXVII domenica nell’anno
Luca 17,5-10 (Ab 1,2-3; 2,2-4)
di Luciano Manicardi

In quel tempo, 5gli apostoli dissero al Signore: 6«Accresci in noi la fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: «Sràdicati e vai a piantarti nel mare», ed esso vi obbedirebbe.7Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: «Vieni subito e mettiti a tavola»? 8Non gli dirà piuttosto: «Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu»? 9Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? 10Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare»».


La fede è il tema unificante la prima lettura (Ab 1,2-3; 2,2-4) e il vangelo (Lc 17,5-10). Nel testo profetico si tratta della fede messa alla prova dall’imperversare del male operato dagli umani e dal silenzio e dall’inazione di Dio: fede chiamata a divenire attesa perseverante e fiduciosa nella promessa di Dio. Si tratta di credere senza vedere, anzi, di credere nonostante ciò che si vede e che mette in discussione la fede. Così, la fede mostra la sua efficacia agendo sul credente, su colui che crede nonostante tutto: e spesso, se non sempre, la fede è “credere nonostante”. Essa mostra la sua efficacia costruendo la forza interiore del credente, scavandolo in profondità e donandogli intelligenza e sapienza. In questo modo, afferma Abacuc, anche in tempi bui il giusto può trovare vita grazie alla fede. Soprattutto può dare radici salde e profonde alla sua vita. Nel vangelo la fede è anzitutto richiesta in un’invocazione ed è colta come relazione con il Signore: non è frutto di volontà, per quanto “buona”, del credente, non è una sua opera. Piuttosto vive nello spazio della relazione con il Signore ed è necessaria per sostenere i rapporti fraterni, per vivere la vita comunitaria, le relazioni ecclesiali. Grazie ad essa infatti, il credente non è nella chiesa semplicemente uno che “fa dei servizi”, per quanto buoni, utili e santi possano essere, ma viene costruito come servo sulle orme del Signore “venuto non per farsi servire ma per servire” (Mc 10,45; cf. Lc 22,27).

Il testo di Abacuc contiene una prima parte (Ab 1,2-3) costituita da un lamento-grido di denuncia che il profeta rivolge a Dio. Il profeta ingaggia un vero corpo a corpo con il suo Dio incalzandolo con grida e domande che dicono l’urgenza dell’intervento divino e l’esasperazione del profeta di fronte a ciò che vede. Anzi, che il Signore gli fa vedere (“mi fai vedere l’iniquità”: v. 3). E qui il testo riveste un tono accusatorio. Le espressioni generiche e stereotipate, sebbene espresse con sofferta e intensa partecipazione, non consentono di definire con precisione quale sia la situazione storica di cui si tratta. Il riferimento è a una situazione interna al popolo? O al nemico caldeo a cui Abacuc farà riferimento in seguito (Ab 1,5ss.)? Tuttavia, l’indeterminatezza ci consente di cogliere il dramma di Abacuc come non relegato al suo tempo ma estensibile alle tante situazioni esistenziali e storiche in cui il male imperversa, i giusti vengono sopraffatti dai malvagi, il diritto e la legge sono violati e non riescono ad arginare la violenza dei prepotenti (Ab 1,4). E la protesta del profeta si condensa in due domande: “Fino a quando?” (Ab 1,2); “Perché?” (Ab 1,3). Le due domande sono parte costitutiva del ministero profetico che è, come indica il termine ebraico massa‘ che apre la profezia di Abacuc (Ab 1,1, “oracolo”), un “peso”, un compito oneroso: la parola di Dio che il profeta deve annunciare diviene un peso schiacciante per il profeta che non può sottrarsi anche se ne è tentato. Continuare a gridare “Violenza!” (Ab 1,2) e vedere che il male non viene arrestato, che i malvagi continuano a fare il male e che Dio non interviene ma sembra godersi lo spettacolo (“perché resti spettatore dell’oppressione?”: Ab 1,3), conduce il profeta al limite del sopportabile. Lo scandalo del male del mondo diviene lo scandalo della fede nel Dio che non ascolta e non interviene. Dietro alle domande rivolte a Dio vi è anche l’interrogativo angoscioso circa il fin dove si può spingere la capacità dell’uomo di fare il male. In Ab 1,3 ricorrono sei vocaboli che indicano forme differenti di compiere il male: la Bibbia CEI parla di iniquità, oppressione, rapina, violenza, liti, contese. Possiamo anche tradurre con crimini, ingiustizie, violenze, distruzione, alterchi, contrasti. Si tratta di violenze contro le persone come di attentati ai beni altrui, sopraffazioni e litigi, azioni che comportano macchinazioni diaboliche ai danni degli altri, menzogne, intrighi e manovre contro vittime impotenti.

La seconda parte del testo (Ab 2,2-4) presenta la risposta del Signore. Risposta preceduta dalla dichiarazione del profeta di porsi come sentinella e rimanere nel posto di osservazione per discernere la risposta del Signore (Ab 2,1: “Mi metterò di sentinella in piedi sul posto di osservazione, a spiare, per vedere che cosa mi dirà, che cosa risponderà ai miei lamenti”). Si tratta di vegliare giorno e notte (“La vedetta ha gridato: ‘Al posto di osservazione, Signore, io sto sempre lungo il giorno, e sul mio osservatorio sto in piedi, tutte le notti’”: Is 21,8). Il profeta rimane, sta, e attende con vigilanza. Non si lascia vincere dal senso di inutilità, non cede alla tentazione dell’abbandono, non perde la fiducia in Dio e così arriva a vedere la risposta del Signore. Colui che fino a quel momento gli aveva fatto vedere distruzioni e violenze ora gli fa vedere la sua parola. E questa parola deve diventare visibile anche per altri traducendosi in scrittura: “Scrivi la visione e incidila bene sulle tavolette” (Ab 2,2). E così la “visione” raggiungerà anche altri attraverso la lettura. Fine della stesura scritta è che “la si legga speditamente”. E in questo caso si tratterebbe di una facilitazione fisica per la lettura. Ma la frase la si può anche tradurre: “affinché chi la legge corra”. Cioè possa procedere speditamente sulla via della sapienza e della rettitudine. Il significato diventa etico: “Corro sulla via dei tuoi comandi” (Sal 119,32). La visione messa per iscritto aiuta il credente a continuare il cammino: essa infatti attesta un termine, parla di una scadenza, rinnova la promessa e dunque chiede di rinnovare la fiducia. Sono esattamente la rinnovata fiducia nella parola del Signore e la fedeltà a tale parola che rendono giusto l’uomo e gli consentono di vivere per la sua ’emunah, mentre chi non ha l’animo retto soccombe (cf. Ab 2,4). Abacuc non fa che riaffermare le espressioni di Isaia circa la capacità della fede di dare stabilità all’uomo: “Se non crederete (vb. ’aman), non resterete saldi” (Is 7,9). La fede è la paradossale base di saldezza del credente: saldezza e stabilità che si trovano nell’abbandono di sé ad Altro da sé.

Nel vangelo, la preghiera degli “apostoli” (Lc 17,5) “Accresci la nostra fede” (v. 6) è la loro intelligente reazione alle parole di Gesù che parlano dell’inevitabile verificarsi di scandali nelle comunità cristiane e del perdono sempre da rinnovarsi verso chi si mostra pentito (vv. 1-4). Come resistere agli scandali e agli abusi nello spazio ecclesiale? Come rinnovare sempre il perdono a chi offende e si pente a ripetizione? Solo rinnovando la fiducia nel Signore. È tenendo fisso lo sguardo sulla vicenda di Gesù che possiamo non lasciarci scoraggiare e abbattere dalla visione degli scandali e degli abusi; è solo contemplando colui che ha invocato il perdono anche sui suoi crocifissori che possiamo trovare la forza di rinnovare il perdono a chi ripetutamente fa il male anche se tale perdono non cambia nulla nell’altro e alla fine sembra configurarsi come una complicità che consente il perpetuarsi dei comportamenti offensivi. Le prove e le fatiche che la vita comune ed ecclesiale presentano diventano così la fornace che forgia il cristiano come servo sulle orme del Servo Gesù Cristo. E questo è espresso nella parabola che mette in scena un padrone e un servo (vv. 7-10). Ma chi è un “servo” nell’economia cristiana? La parabola afferma che un proprietario terriero non si riterrà obbligato verso il servo che, dopo aver lavorato nei campi, rientra a casa e prepara da mangiare. Compito del servo è servire. Il passaggio dalla parabola agli apostoli li qualifica come servi che, se hanno eseguito bene il loro compito, semplicemente hanno fatto ciò che dovevano. Spesso si traduce il termine greco achreîos con “inutile”, che è certamente uno dei significati di quel vocabolo e che così è stato inteso dalla versione latina detta Vulgata: Servi inutiles sumus. Tuttavia quei servi sono tutt’altro che inutili. Il significato del termine va compreso alla luce della parabola e inteso nel senso di “servi a cui non è dovuto alcun favore particolare da parte del padrone”. “Siamo semplicemente dei servi; siamo dei servi e nulla più; non ci è dovuto nulla per ciò che abbiamo fatto”: questo il senso dell’espressione. E questo è importante perché qui si sta parlando di chi nella comunità cristiana svolge un ruolo di autorità (“apostoli”: v. 5). I responsabili ecclesiali sono interpellati circa la coscienza del loro ruolo. Se tengono lo sguardo fisso al Signore essi non possono che considerarsi semplici servi e nemmeno si sognano di avanzare pretese o che a loro siano dovuti riconoscimenti e ringraziamenti. Se invece lo sguardo è su di sé o sulle persone che hanno attorno, essi rischiano di ergersi a padroni e passare dall’essere servi all’avere dei servi (come il padrone della parabola: “se uno ha un servo”: v. 7). In verità in quell’“essere semplici servi” vi è la libertà del credente, e in particolare del responsabile ecclesiale il quale, nell’arare, nel pascolare il gregge e nel servire (vv. 7-8: tutti verbi spesso riferiti ai pastori della chiesa), non trova motivi di recriminazione o di pretesa, ma la conferma del proprio cammino di fede.