La faticosa perseveranza

Giovanni Frangi
Giovanni Frangi

16 novembre 2025

XXXIII Domenica nell’anno
Luca 21,8-19 (
Ml 3,19-20a)
di Luciano Manicardi

In quel tempo, Gesù 8disse ai suoi discepoli: «Badate di non lasciarvi ingannare. Molti infatti verranno nel mio nome dicendo: «Sono io», e: «Il tempo è vicino». Non andate dietro a loro! 9Quando sentirete di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, perché prima devono avvenire queste cose, ma non è subito la fine».
10Poi diceva loro: «Si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno, 11e vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo.
12Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome. 13Avrete allora occasione di dare testimonianza. 14Mettetevi dunque in mente di non preparare prima la vostra difesa; 15io vi darò parola e sapienza, cosicché tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere. 16Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi; 17sarete odiati da tutti a causa del mio nome. 18Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. 19Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita».


Le letture bibliche della penultima domenica dell’anno liturgico presentano l’annuncio della venuta del giorno del Signore che sarà di giudizio per gli uni e di salvezza e guarigione per altri nella pericope dell’AT (Ml 3,19-20a) e, inserita nel discorso escatologico del terzo vangelo, un’esortazione al discernimento e alla perseveranza rivolta da Gesù ai suoi discepoli. Discernimento per non lasciarsi affascinare da coloro che strumentalizzano l’esperienza di fede e manipolano lo spirituale per avere seguaci e “fans” (Lc 21,8) e per non scambiare come “segni della fine” quegli eventi catastrofici e violenti come le guerre che fanno parte del quotidiano della storia (Lc 21,9). Il discernimento è volto a “fare qualcosa” di queste situazioni negative e poter così perseverare senza scoraggiarsi. E qui la parola chiave è “testimonianza”, martyría (Lc 21,1): “Avrete allora occasione di dare testimonianza” o “Questo vi condurrà a dare testimonianza”. Il senso è che è possibile fare qualcosa di positivo anche di situazioni negative come violenze e ingiustizie subite. Così legata al discernimento, la perseveranza non ha nulla della rassegnazione e del passivo subire gli eventi, ma è un attivo prendere parte alla storia senza fughe dalla realtà, esercitando anzi un giudizio su persone e situazioni e dando così un fondamento interiore e spirituale all’agire. Nel testo evangelico odierno non si tratta dunque della fine del mondo, ma di ciò che avviene “prima” (Lc 21,9.12), nell’oggi, nella storia, che appare così il tempo della faticosa perseveranza.

La pericope evangelica si apre mettendo a confronto due sguardi. Due sguardi che guardano lo stesso oggetto ma che lo vedono in maniere differenti. A fronte di “alcuni” che ammirano la bellezza del tempio, Gesù vede la prossima distruzione di tale costruzione: “Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sia distrutta” (v. 6). I primi non hanno visto male. La bellezza e maestosità del Tempio erano proverbiali e, come attesta Giuseppe Flavio, impressionavano “la mente e la vista. Poiché infatti il Tempio è ricoperto ovunque di massicce piastre d’oro, fin dal primo sorgere del sole era tutto un riflesso di bagliori, e a chi si sforzava di guardarlo, faceva abbassare lo sguardo come per i raggi del sole”. La differenza è nella profondità dello sguardo. Gesù guarda e vede l’oggi alla luce del futuro. Come già aveva fatto su Gerusalemme piangendo su di essa per ciò che il futuro le preparava (Lc 19,41-44), così ora fa sul Tempio. E il successivo discorso presentato dalla pericope liturgica (Lc 21,8-19) sarà orientato dalla prospettiva escatologica che porterà Gesù ad illuminare l’oggi dei credenti e della comunità cristiana. Nella pagina profetica, Malachia guarda anch’egli l’oggi a partire dall’annuncio della futura venuta del giorno del Signore (Ml 3,19), e l’evento futuro gli consente di discernere e giudicare l’oggi. Vengono rivelati “i superbi”, gli “arroganti”, i ricchi che, basandosi sulle proprie fortune, si ritenevano al riparo da sventure, ma anche, come suggerisce di intendere l’intero testo di Malachia, quei “sacerdoti e fedeli”, dunque quei “credenti”, che mettevano in discussione l’amore, l’agire di Dio, la sua fedeltà, e si rifugiavano dietro a una prassi formale di obbedienza e ritualità, avendo completamente perso l’adesione interiore al Signore e la coscienza delle proprie azioni (Ml 1,2.6.7; 2,13-14.17; 3,8.13-15). Il messaggio è: il futuro discerne l’oggi. Occorre leggere il presente con gli occhi di domani. E nella fede, il domani è “il giorno del Signore”, l’avvento del Regno di Dio di cui il credente tenta di dare già nell’oggi segni di realizzazione.

Le parole di Gesù colpiscono i suoi interlocutori che reagiscono con una domanda che riguarda il quando del realizzarsi di “queste cose” e quale ne sarà “il segno” (Lc 21,7). La domanda cerca di addomesticare la dimensione scioccante della rivelazione: conoscere il tempo preciso, sapere i segni che preparano tale evento consente di rendere meno destrutturante e più comprensibile, più intelligibile l’evento stesso. Si tratta di una misura di protezione di sé e anche di “razionalizzazione” di un fatto così sconcertante per cui ciò che ora è ammirato nella sua grandezza maestosa, in un futuro più o meno prossimo non sarà che un cumulo di macerie. Gesù interpreta bene la domanda e anche il suo non-detto, il sottofondo da cui nasce, e risponde in modo indiretto, da un lato con una messa in guardia dai falsi profeti, dall’altro con l’avvertimento a non ritenere segni della fine eventi calamitosi come guerre e rivolte (vv. 8-9). Dall’evento storico della distruzione del tempio, Gesù passa ad altri eventi verificabili storicamente e con cui avevano a che fare anche le comunità cristiane all’epoca dell’evangelista. E il primo è particolarmente interessante. Gesù dice: “molti verranno nel mio nome dicendo ‘Sono io’ e ‘il tempo è vicino’”. Il suo avvertimento è pertanto netto: “Non seguiteli” (Lc 21,9). Tanta è la forza e l’autorevolezza con cui Gesù ha rivolto la chiamata “Seguimi” a diverse persone, altrettanta ne troviamo qui nel reciso comando negativo e non mettersi alla sequela di impostori spirituali. Per Gesù si tratta di un pericolo grave da cui guardarsi. Il rischio è di lasciarsi “ingannare”, “traviare” (vb. planáo: v. 8) da persone che si presentano come profeti, che parlano in nome di Gesù, sono dunque cristiani, ma “occupano” la comunità cristiana avanzando pretese di autorevolezza tale che si paragonano perfino a Dio: l’espressione “Io sono” (egó eimi: v. 9) nell’Antico Testamento designa il nome di Dio stesso. Dicendo “Io sono” essi manipolano e sfruttano lo spirituale; dicendo “il tempo è vicino” manipolano la storia e gli eventi. Dio e i fatti vengono piegati al volere e anche alla patologia di colui che erge il suo stesso io a dio e per cui la realtà non è quella che è, ma quella che lui dice che è. Vengono qui intravisti quei fenomeni che oggi nella chiesa chiamiamo abusi, anche se si tratta di un vocabolo che, all’utilità di indicare chiaramente di cosa si parla, associa la debolezza di essere troppo generico per cui andrebbe diversificato e pluralizzato con termini differenti a indicare i diversi atti commessi: ci sono crimini, ci sono molestie, ci sono comportamenti inappropriati, abusi psicologici, spirituali, di potere… Per Gesù, questi seduttori usano parole evangeliche, ma alla fine al centro ci sono loro, non Gesù. Sete di protagonismo, ossessione di riconoscimento pubblico, volontà di avere seguaci fedeli e ossequienti, mania di controllo, piacere nell’esercizio del potere su altri, e il tutto coperto dall’onorabilità dello spirituale, dalla fama di essere maestri della fede e profeti. E poiché Gesù sa che lo spazio dello spirituale è particolarmente delicato e vulnerabile, è cosciente del fatto che in esso abita anche la credulità, l’ingenuità, la mancanza di discernimento, la semplicità che può essere sfruttata da persone senza scrupoli.

Gesù poi avverte anche i suoi interlocutori di non cadere preda del terrore di fronte a guerre e sommosse (v. 9). Nessuna interpretazione apocalittica di eventi come guerre e violenze collettive che certamente colpiscono l’immaginazione, turbano, vengono sentiti come eccedenti le misure normali dell’umano e possono dare adito appunto a speculazioni apocalittiche. Il discorso di Gesù, anche dopo aver evocato i fatti storici e i segni cosmici terrificanti (vv. 10-11), è tutto volto all’oggi storico e al “voi” (il pronome di seconda persona plurale hymeîs ricorre otto volte nei vv. 12-19) dei credenti nella storia. “Prima di tutto questo”: l’attenzione di Gesù, e dunque dei suoi discepoli e dei lettori del vangelo, non è sulla “fine” (v. 9), ma sul “prima” (v. 12). E il prima è il tempo in cui i credenti conosceranno emarginazioni, ostilità, persecuzioni anche violente da parte di autorità politiche e religiose, e anche nell’ambito famigliare. Colpisce che Gesù comandi di non preparare la propria difesa quando si sarà trascinati davanti a tribunali. Di per sé la testimonianza davanti a un tribunale sarà efficace se preparata con l’aiuto di un avvocato e studiando la strategia da adottare. Per Gesù la miglior preparazione, anzi, l’unica, è non prepararsi, ma aprirsi all’azione dello Spirito avendo fiducia nella promessa di aiuto da parte del Signore (“Io vi darò parola e sapienza”: lett. “bocca e sapienza”: v. 14). Come i discepoli erano stati inviati in missione nella più totale povertà e sprovvisti praticamente di tutto (Lc 9,3; 10,3-4), anche di fronte ai tribunali essi dovranno presentarsi totalmente spogli, senza difese preventive, mostrando anche in quei momenti cruciali il loro affidamento al Signore. Allora il credente potrà sperimentare la protezione del Signore anche quando se subisce condanne, violenze, o perfino l’uccisione. L’espressione “neppure un capello del vostro capo andrà perduto” (v. 18; cf. Lc 12,7) va intesa in senso simbolico della protezione che Dio accorda ai suoi e che accoglie con sé nella vita eterna: “Con la vostra perseveranza salverete le vostre vite” (v. 19).