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Témoignage et martyre dans la Bible

2. Testimonianza e martirio di Gesù di Nazaret

Vorrei affrontare il tema della testimonianza/martirio nel Nuovo Testamento da un’ottica particolare. Si è soliti ripetere che nel Nuovo Testamento sono narrati tre episodi di martirio: la decapitazione di Giovanni il Battista (cf. Mc 6,17-29), la lapidazione di Stefano (cf. At 7,55-60) e la crocifissione di Gesù. Ma se nei primi due casi il carattere di martirio è evidente, le cose stanno un po’ diversamente per la morte di Gesù. Se infatti è vero che attraverso una lettura di fede e teologica si è giunti a interpretare la morte di Gesù quale sacrificio di espiazione (cf. Mt 26,38; 1Pt 2,24-25), quale «principio normativo per discernere la verità del martirio cristiano» (Bruno Maggioni), resta altrettanto vero che nella sua vicenda storica egli ha conosciuto la morte del maledetto attraverso una fine vergognosa, attraverso l’anti-sacrificio per eccellenza: la morte in croce. Per la Scrittura questa è la morte del maledetto da Dio («Maledetto chi pende dal legno»: Gal 3,13; cf. Dt 21,23), appeso tra cielo e terra perché rifiutato da Dio e dagli uomini; è la mors turpissima crucis (Origene, Commento a Matteo xxvii,22), il supplizio estremo inflitto a chi è stato giudicato nocivo alla polis dall’autorità politica romana e nemico della comunità dei credenti dall’autorità religiosa legittima.

Cos’è accaduto a Gerusalemme la vigilia del sabato di Pasqua, il 7 aprile dell’anno 30? Gesù, un galileo che aveva radunato attorno a sé una comunità di pochi uomini e alcune donne coinvolti pienamente nella sua vita itinerante, ritenuto rabbi e profeta da questi discepoli e da un numero più ampio di simpatizzanti, è stato condannato e messo a morte mediante la crocifissione. Questa fine fallimentare è subito apparsa uno scandalo – «lo scandalo della croce» (cf. 1Cor 1,23), dirà Paolo –, un ostacolo per la fede in lui, soprattutto quando si cominciò a confessarlo Messia di Israele e perciò Figlio di Dio, da Dio inviato per annunciare la venuta del suo Regno. Ecco perché, ancora all’inizio del ii secolo d.C., il giudeo rabbi Tarfon dichiara nel dialogo con il cristiano Giustino: «Noi sappiamo che il Messia deve soffrire ed essere condotto come pecora (cf. Is 53,7); ma che debba essere crocifisso e morire in un modo così vergognoso e ignominioso, attraverso la morte maledetta dalla Legge, noi non possiamo neppure arrivare a concepirlo» (Dialogo con Trifone 90,1). Non è un caso che alcuni gruppi di cristiani finiranno per negare che Gesù sia morto in croce, ed è altamente significativo che per il Corano Gesù è stato sostituito all’ultimo momento da un altro uomo perché non era possibile una morte simile per il il Messia (cf. Sura iv,157).
Eppure per l’autentica fede cristiana è proprio il crocifisso colui che «ha narrato Dio» (cf. Gv 1,18); anche sulla croce, anzi soprattutto sulla croce, Gesù «ha reso testimonianza alla verità» (cf. Gv 18,37: verbo martyréo), trasformando uno strumento di esecuzione capitale nel luogo della massima gloria. Ma com’è stato possibile che un uomo appeso a una croce diventasse colui sul quale i cristiani tengono fissi lo sguardo come Salvatore e Signore? Ovvero: si può giudicare la sua morte come un martirio? Credo che per rispondere a questa domanda occorra interrogarsi sul perché Gesù è stato ucciso e su come egli ha affrontato la prospettiva della sua imminente morte violenta. Ha affermato Agostino: «Martyres non facit poena sed causa» (Esposizioni sui Salmi 34,ii,13), ossia «ciò che rende martiri non è il supplizio ma la causa della morte». Ebbene, qual è stata questa causa, nel duplice senso di causa storica e di principio interiore profondo che ha animato l’agire di Gesù?

I vangeli si preoccupano di dirci chiaramente che Gesù è andato verso la morte non per caso né per necessità, ossia a motivo di un destino incombente su di lui. No, Gesù non è stato arrestato casualmente: lui stesso aveva intravisto la propria fine, la fine che era toccata a tutti i profeti, la fine fatta dal suo maestro Giovanni il Battista solo pochi anni prima, la fine che era l’esito dell’opposizione crescente verso di lui da parte del potere religioso. Non si dimentichino in proposito le sue invettive contro quanti edificavano le tombe ai profeti, facendosi in tal modo solidali con chi li aveva uccisi (cf. Mt 23,29-31; Lc 11,47-48), e il suo lamento su Gerusalemme, che «uccide i profeti e lapida quelli che le sono inviati» (cf. Mt 23,37; Lc 13,34). Ma il suo non era neanche un destino ineluttabile: Gesù restava libero di fronte al cerchio che si stringeva attorno a lui, libero di fuggire e tornare in Galilea, oppure di terminare a Gerusalemme, nel tempio, quell’itineranza e predicazione alla gente iniziata nelle sinagoghe e nelle piazze dei villaggi.

Né caso, né necessità: Gesù va verso la morte nella libertà e per amore, «avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (eis télos: Gv 13,1). Egli aveva detto che «era necessaria» (deî: Mc 8,31 e par.) la sua passione, ma lo era di una «necessità» precisa, innanzitutto umana, sulla quale avevano già meditato i sapienti di Israele: «in un mondo di ingiusti, il giusto può solo essere osteggiato, perseguitato e, se possibile, ucciso», come attestano i primi due capitoli del libro della Sapienza. E la storia conferma questa necessità intraumana: chi ha sete di giustizia, la vive e la predica, incontra ostilità e rifiuto, ieri come oggi. Gesù avrebbe potuto tacere o passare dalla parte degli ingiusti: allora l’ostilità verso di lui sarebbe cessata. Continuando invece ad essere fedele alla volontà di Dio, continuando a passare tra gli uomini facendo il bene (cf. At 10,38), poteva solo preparare il suo rigetto, da parte del potere romano, che vedeva in lui una minaccia alle pretese totalitarie dell’imperatore, e da parte del potere religioso giudaico, che non sopportava il volto di Dio narrato da Gesù. Così la necessità umana diventa anche necessità divina: non nel senso che Dio, suo Padre, lo voglia in croce, ma nel senso che l’obbedienza alla volontà di Dio, volontà che chiede di vivere l’amore fino all’estremo, esige una vita di giustizia e di amore anche a costo della morte violenta.

E qui è fondamentale ribadire che l’assunzione da parte di Gesù di questa fine tragica non è mai andata disgiunta dalla sua fede nel Dio che viene a salvare il giusto, che non abbandona per sempre il suo amico nelle mani degli empi (cf. Sal 37,28). Sì, la rivelazione sempre più chiara del futuro che lo attendeva è stata vissuta da Gesù nell’adesione fiduciosa e nella speranza riposte nel Dio che interviene, nel Padre che risponde: l’ultima parola sarebbe toccata a Dio, che certamente avrebbe rialzato dai morti il suo Figlio amato! In altre parole, la fede di Gesù nel Regno veniente e la sua comunione con Dio e con i fratelli sono rimaste sempre salde e hanno sostenuto e portato a compimento il suo amore: anche di fronte alla morte e nella morte Gesù ha continuato ad amare i fratelli e ad accettare di essere amato da loro, ha continuato a credere nell’amore di Dio.

E così Gesù è stato risuscitato da Dio in risposta alla vita che aveva vissuto, al suo modo di vivere nell’amore fino all’estremo: potremmo dire che è stato il suo amore più forte della morte a causare la decisione del Padre di richiamarlo dai morti. Davvero la resurrezione di Gesù è il sigillo che Dio ha posto sulla sua vita: resuscitandolo dai morti Dio ha dichiarato che nell’amore vissuto da quell’uomo era stato testimoniato tutto ciò che è essenziale per conoscere lui. Ecco in cosa consiste «la testimonianza di Gesù» (he martyría Iesoû: Ap 1,2.9; 12,17; 19,10; 20,4), come la definisce il veggente dell’Apocalisse; ecco ciò che fa di lui «il testimone fedele» (ho mártys ho pistós: Ap 1,5; 3,14), colui che dalla sua croce gloriosa insegna ai suoi discepoli come affrontare tribolazioni e sofferenze per il Vangelo nella fedeltà e nell’amore.