Théologie du labeur ascétique

I fondamenti cristologici dell’ascetica

Una delle più antiche testimonianze della Divino-umanità di Cristo è la lettera di Paolo ai Filippesi: dal sesto all’undicesimo versetto del secondo capitolo. Gli studiosi del Nuovo Testamento concordano nel ritenere che questo inno al Salvatore fu incluso da Paolo nella sua lettera come una glorificazione del Signore Gesù già preesistente. Quindi prima di leggere questo brano vorrei sottolineare il contesto in cui Paolo lo inserì.

All’inizio del capitolo san Paolo scrive della unità che i cristiani raggiungono in Cristo, amandosi vicendevolmente e agendo con umiltà l’uno verso l’altro: “Ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso” (Fil 2,3). Fondamento di questo, dice l’autore ispirato da Dio, è che in noi “devono esservi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fil 2,5). Così il giudizio cristologico diventa esatta indicazione della sua finalità: noi stessi dobbiamo diventare simili a Cristo. Nelle parole dell’Apostolo sentiamo l’esortazione a seguire non solo l‘esempio morale di Cristo, ma a vivere di Cristo, come lo stesso Paolo vive di Lui: “Per me infatti il vivere è Cristo, e il morire un guadagno” (Fil 1,21). Qui è necessario sottolineare anche lo sviluppo di questo pensiero sul piano escatologico personale: “Da una parte ho il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio”. Ma più avanti ecco la sua ritrattazione: “…è più necessario per voi che io rimanga nella carne” (fil 1,23-24).

Ora andiamo a quello che san Paolo dice ai Filippesi su Cristo, di cui i cristiani, trasfigurati dal podvig ascetico, devono condividere i medesimi sentimenti. “Egli, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre”. (Fil 2,6-11)

Questo brano è stato più volte oggetto di accurata analisi teologica. Qui il mio compito non è di discutere sui diversi aspetti interpretativi di questo inno. Vorrei invece attingere da questa antica composizione cristologica un argomento necessario per meglio capire la problematica della teologia del podvig ascetico.

Questo argomento si trova nella risposta alla domanda: perché Dio lo ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome? Perché tutti i popoli cristiani professano che il Signore Gesù Cristo è nella gloria di Dio Padre? In sostanza ci si chiede qui perché l’umanità di Cristo è stata resa degna della gloria Divina. In una tale formulazione si può sospettare il sapore di una separazione nestoriana tra l’“umanità di Cristo” e la “divinità di Cristo”.

Io vorrei però lasciare la questione proprio in questa forma, per poter definire con estrema chiarezza l’essenza della “natura umana” nell’unica “ipostasi divino-umana” di Cristo. Ma proprio questo è l’insegnamento divino sull’essenza dell’ascesi. Nella lettera ai Filippesi la gloria divina di Cristo è descritta come una conseguenza della Sua umiltà e ubbidienza fino alla morte, una morte straziante e ignominiosa. Su questo san Paolo mette un accento particolare. Tuttavia la gloria divina non è solo una conseguenza dell’umiltà. Non a caso all’inizio del brano si parla della uguaglianza di Gesù Cristo con Dio.

La morte in croce, impossibile per la natura divina, è possibile per la natura umana. Ed è per questo che “Dio ha mandato il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato e in vista del peccato nella carne”, come spiega questo mistero l’apostolo Paolo ai Romani (Rm 8,3) In tal modo la morte in croce del Figlio dell’Uomo diventa la morte personale del Logos immortale. Al mistero della morte dell’immortale, al mistero della lotta ascetica del Dio-Uomo distaccato dalle passioni noi ci possiamo in qualche modo avvicinare ascoltando le parole della preghiera del Getsemani: “Padre mio! Se è possibile, passi da me questo calice; però non come voglio io, ma come vuoi Tu!” (Mt 26,39)

Qui si sente il “voglio” della natura umana, qui respira il “se è possibile” della libertà umana, ma proprio qui risuona anche il “Tu” della umiltà divino-umana. In questa umiltà di Dio viene guarita la natura e viene rinnovata la libertà di tutto il genere umano che è malato per i peccati e soffre per le passioni. In questa umiltà ascetica del Figlio di Dio il libero arbitrio dell’uomo e la sua essenza naturale acquistano la prospettiva dell’eterna immortalità dinanzi al Volto del Creatore.

L’ubbidienza e l’umiltà di Cristo rappresentano nel Getsemani non solo una diminuzione del Figlio dell’Uomo dinanzi a Dio Padre. Questa estrema umiltà e piena ubbidienza sono modi di esistenza propri del Logos eterno. Anche qui, nel Getsemani, nella notte dell’arresto arriva quel preciso momento in cui la parola di Dio realizza quei modi di essere, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini. Così Dio ha esaltato Cristo e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome, poiché l’umanità di Gesù di Nazareth si è realizzata pienamente, si è spalancata davanti all’Occhio Onnivedente del Padre.