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Transfiguration du Seigneur


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5-6 août 2013    
Homélie d'ENZO BIANCHI
Savons-nous lire et discerner les dons de Dieu? Même si nous sommes opprimés par le sommeil en raison du labeur de la charité, savons-nous rester éveillés pour discerner la gloire du Seigneur dans nos pauvres vies?

   Bose, 5-6 août 2013
Homélie d'ENZO BIANCHI

  Lc 9,28-36 

toutes les homélies du prieur ENZO BIANCHI   

Profession monastique définitive
de fr. FABIO BAGGIO

Écouter l'homélie:

 

TEXTE ORIGINAL ITALIEN
DE L'HOMÉLIE DU PRIEUR DE BOSE

 

Fratelli e sorelle, amici e ospiti,

ancora una volta siamo invitati ad accogliere i doni del Signore: il dono di questa festa della trasfigurazione, che è una profezia per tutti noi; il dono di un fratello, un nuovo fratello per la nostra koinonía; il dono del nostro vivere in comunione che questa notte viene da noi gustato in modo evidente più che mai (cf. Sal 133). La nostra vita è costantemente colmata da doni del Signore, anzi, da doni che ci sorprendono, perché ciò che noi non meritiamo, ciò per cui noi non lavoriamo, ciò che per noi è inatteso, giunge a noi dal Signore e dà senso a ogni nostra fatica. Fatica del vivere, fatiche diverse, ma quando si è alla fine della vita e si guarda indietro, si capisce che c’è stato alla fin fine una sola fatica: “la fatica della carità”, kópos tês agápes (1Ts 1,3), come la chiama Paolo, fatica dell’amare. Tutte le altre fatiche si dissolvono, tutte le altre fatiche cessano, la fatica dell’amare ci accompagna fino alla morte.

Ma noi sappiamo leggere e discernere i doni di Dio, sappiamo in questo nostro quotidiano essere vigilanti, svegli, per riconoscere come Dio viene a noi con i suoi doni? Anche se oppressi dal sonno per la fatica della carità, sappiamo restare svegli per vedere la gloria del Signore nelle nostre povere vite? Noi dobbiamo farci queste domande, soprattutto in questa notte che è sacramentalmente un passaggio del Signore in mezzo a noi. Per questo dobbiamo invocare lo Spirito santo perché scenda nei nostri cuori e predisponga ciò che noi non sappiamo neppure preparare in vista dell’accoglienza dei doni che il Signore ci fa questa notte, tra i quali ci ha già fatto il dono della sua Parola che abbiamo ascoltato e che ora cerchiamo di meditare nel nostro cuore.


  

Poco prima del brano che è stato proclamato nel vangelo secondo Luca, Gesù ha detto ai discepoli alcune parole importanti, di preparazione a questo evento della trasfigurazione: “In verità io dico a voi: ci sono alcuni qui presenti che non gusteranno la morte prima di aver visto il regno di Dio” (Lc 9,27). Dopo la confessione di Pietro, l’annuncio della sua passione, il richiamo alla sua sequela (cf. Lc 9,18-26), Gesù fa questo annuncio enigmatico: alcuni di quei discepoli stretti attorno a lui, i Dodici, vedranno il regno di Dio prima di morire. Gesù non solo aveva annunciato il regno di Dio come veniente, ma aveva fatto del regno di Dio il centro della sua predicazione. Gesù non ha parlato molto di Dio ma piuttosto ha annunciato il suo regno. Conosciamo bene la promessa che Gesù: “Il regno di Dio è vicino” (Mc 1,14; Mt 4,17), e questa era l’attesa che lui viveva e chiedeva ai discepoli di vivere. Il Dio di Gesù, il Padre suo, aspetta gli uomini non solo perché lo incontrino, ma per dare loro una terra nuova in cui sarà Signore e regnerà, ma una terra nuova dove gli uomini troveranno in pienezza e non più segnato dal male ciò che hanno trovato su questa terra. Gesù non a caso ha parlato molto del regno di Dio, o meglio lo ha evocato come terra nuova, come beatitudine, come banchetto e soprattutto come comunione tra uomini che hanno vissuto su questa terra. Come cristiani noi dovremmo essere più attenti: Gesù si è interessato più del regno di Dio che di Dio stesso, perché il regno di Dio è Dio con gli uomini, non senza gli uomini, non senza questo mondo.

Ed ecco, “otto giorni dopo” – precisa Luca – il compimento di questa promessa. Nell’ottavo giorno, il giorno della restaurazione di tutte le cose, il giorno del rinnovamento di tutta la creazione, dopo il settimo giorno del compimento, i discepoli vedono il regno di Dio promesso da Gesù e vedono come Dio regna. Ecco, nell’ottavo giorno dopo queste parole – e Luca insiste: “otto giorni dopo queste parole” – Gesù prende con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e sale sul monte a pregare. Ma mentre pregava “avvenne”, avvenne qualcosa, c’è stata un’azione che soltanto Dio poteva operare: il volto di Gesù diventò altro, le sue vesti di un bianco sfolgorante; non solo, accanto a Gesù così mutato nel suo aspetto, appaiono nella forma gloriosa Mosè ed Elia, viventi dunque nel regno di Dio. Non solo Gesù è nella luce, ma anche Mosè ed Elia sono nella luce, e la luce indica la gloria di Dio.


 

Potremmo dire che questa è stata una manifestazione della gloria di Dio, del regno di Dio attraverso Gesù, Mosè ed Elia; ed è questo, per quanto è possibile, che i discepoli hanno visto. Avevano seguito Gesù coinvolti nella sua vita, avevano condiviso con lui per anni la quotidianità, avevano anche conosciuto Gesù nella sua fragilità, nella sua debolezza, ma ora lo vedono nella sua bellezza. Potremmo dire che la sequela dei discepoli diventa nella trasfigurazione anche un’esperienza estetica, un’esperienza di bellezza, contemplazione che provoca un rapimento, un ékstasis, un’uscita da se stessi, veramente rapiti dalla forza di ciò che è bello. I tre discepoli sono stati strappati agli altri nove, sono stati presi, portati dove con le loro forze non sarebbero mai giunti e sono rapiti dalla bellezza del regno di Dio. È il regno ciò che vedono, in cui c’è la vita eterna, in cui c’è l’Adam trasfigurato, che è Gesù Cristo con la sua carne gloriosa; è il regno nel quale vivono Mose ed Elia; è il regno in cui c’è comunicazione, grazie alla quale Mosè ed Elia parlano con Gesù. Mosè ed Elia hanno vissuto in questo mondo, ormai da secoli sono morti, ma nel regno continuano a vivere, e la loro comunicazione continua: come avevano comunicato quando erano sulla terra, comunicatori tra Dio e gli uomini, adesso sono in comunicazione con Cristo.

Ma in questo evento glorioso Luca precisa che Mosè ed Elia “parlano con Gesù dell’esodo (éxodos), l’esodo che Gesù stava per compiere a Gerusalemme”; parlano della Pasqua prossima di Gesù; parlano – unico caso in tutto il Nuovo Testamento – dell’uscita di Gesù da questa vita, da questo mondo. Proprio Luca è il solo a parlare di “entrata” (eísodos: At 13,24) per l’incarnazione, parla di entrata nel regno per l’ascensione di Cristo (cf. Lc 24,51; At 1,9-11), e qui parla di éxodos, di uscita, dunque di quella che sarà la passione che si completerà nella morte di Gesù, la fine della sua vita. Gesù deve “compiere” – il verbo qui usato da Luca è molto significativo –, deve compiere il disegno di Dio assunto fin dalla sua vocazione, deve compiere questo passaggio in vista della gloria: di questo parla con la Legge e i Profeti. È una necessitas, è una necessità, una necessità dovuta a questo mondo, dovuta a questa umanità che siamo noi, segnata dal peccato. Proprio prima della trasfigurazione aveva annunciato: “È necessario (deî) che il Figlio dell’uomo soffra molte cose, sia respinto, sia ucciso e il terzo giorno risorga” (cf. Lc 9,22). È una necessità perché non può essere diversamente. Non che ci sia un fato, non che ci sia un destino e neppure un decreto dall’alto. Non è il Padre di Gesù che lo vuole, ma questo è l’assetto di questo mondo e di questa umanità, perché gli uomini e le donne di questo mondo non sono capaci di giustizia, ma operano l’ingiustizia, quella che fa soffrire molte cose (pollà), quella che porta a respingere colui che è giusto.Siamo noi, il nostro mondo, la nostra umanità che non sopporta l’apparire della giustizia: quando appare la giustizia accade in noi una dinamica di odio, di inimicizia, di rigetto, non sopportiamo di vedere la giustizia. Così è avvenuto a Gesù e così avviene a ogni cristiano che vuole restare nel regime della giustizia, che non vuole sedurre, che non vuole compiacere, che non vuole essere lui l’idolo acclamato dagli altri.


 

Le sante Scritture dell’antica economia, insieme concordi, confermano a Gesù la necessitas della passione, del soffrire molte cose. Ora, per tutti la morte è un evento doloroso, perché avviene nella sofferenza psichica e fisica, ma nel caso dell’esodo di Gesù c’è un aggravamento, c’è un accrescimento di sofferenza, perché la sua è anche una sofferenza spirituale, una sofferenza nello spirito, quello spirito che ha animato e ispirato la sua vita e che vive la più grande contraddizione proprio in occasione del suo esodo da questo mondo. Non si può ridurre la passione di Gesù soltanto alle sofferenze della tortura e della crocifissione, alle sofferenze fisiche. Io credo che è solo per questo che gli evangelisti, e Luca in particolare (cf. Lc 22,39-46), testimoniano la sofferenza di Gesù più nell’orto degli ulivi, dove c’è stata la sua sofferenza nello spirito, che non nel momento delle angherie dei soldati o nell’ora della croce. È stata una sofferenza soprattutto interiore quella di Gesù, la sofferenza faticosa di chi legge l’esito della propria vocazione e della propria missione, di chi conosce e misura la viltà, la tiepidezza, l’inconcludenza e soprattutto la menzogna che gli regnavano attorno. È una necessità per Gesù affrontare quell’ora dell’esodo, dell’uscita da questa vita nella forma che il profeta deve vivere – morire a Gerusalemme (cf. Lc 13,33) –, o meglio, nel linguaggio di Gesù, compiere ciò che è giustizia (cf. Mt 3,15) a Gerusalemme.

Di questo evento della trasfigurazione i discepoli vedono solo la luce la gloria, lo splendore; solo Gesù, Mosè ed Elia vivono questo evento conoscendo anche la necessità della passione. Non è un caso che i discepoli Pietro, Giovanni e Giacomo, qui testimoni della gloria, erano pure oppressi dal sonno, ma restarono in veglia per contemplare la bellezza del loro rabbi e profeta; ma proprio questi tre, i più vicini a Gesù, nell’ora dell’esodo di Gesù saranno “addormentati a causa della tristezza” (apò tês lýpes: Lc 22,45), nonostante il triplice invito di Gesù a vegliare e pregare per non entrare in tentazione. Là dormiranno, cioè non saranno presenti, non saranno svegli, sicché poi nell’esodo Gesù sarà completamente solo, con la sola certezza che doveva compiere (pleroûn) ciò che doveva essere fatto, senza arretrare, perché altrimenti avrebbe smentito il suo passato, la sua vita.

Ma ecco l’altro evento, introdotto da Luca di nuovo con il kaì eghéneto: “E avvenne, una voce dal cielo dicente: “Questi è il mio Figlio, l’eletto; ascoltate lui!”. Al cuore della trasfigurazione, di quella conversazione sull’esodo pasquale di Gesù, c’è la voce del Padre che conferma che Gesù è suo Figlio, che Gesù è proprio l’uomo che lui ha scelto. Ormai occorre ascoltare soltanto lui, Parola del Padre, Parola in cui sono eloquenti Mosè ed Elia, la Legge e i Profeti, Parola sola, che resta sola.


 

Questo l’essenziale messaggio della trasfigurazione, messaggio rivolto a tutti noi, ma in modo particolare questa sera a Fabio, nostro fratello. La vita monastica è una chiamata a vivere con particolare consapevolezza la ricerca, la visione del volto di Dio che è Gesù Cristo. La vita monastica è una vocazione alla contemplazione della bellezza; anzi, la bellezza deve riverberarsi nella vita di un monaco. Gregorio di Nazianzo dice che Gesù per un monaco è la bellezza oltre ogni speranza, e proprio questa bellezza di Gesù deve compiere un’azione di trasformazione nella vita del monaco. Agostino nella sua Regola afferma che i monaci devono essere degli innamorati della bellezza, “spiritalis pulchritudinis amatores” (VIII,48), uomini ardenti di amore, innamorati della bellezza, capaci di diffondere il profumo di Cristo: questa è la loro vocazione! E Fabio non deve dimenticare mai che questo è un compito, un esercizio da rinnovarsi ogni giorno contro la bruttezza che magari altri scaglieranno, contro la banalità, contro la mancanza di stile, contro il lasciarsi trascinare, tutte cose che possono accadere anche nella comunità monastica. Ma un monaco che adempie la sua vocazione non permette alla bruttezza che lo attornia di offendere o attutire quella bellezza che gli può dare Cristo.

 Ricorderei inoltre a Fabio che la bellezza si realizza nel tempo, si realizza attraverso lo stile, e lo stile è qualcosa che si acquisisce quando si fanno le cose con serietà e con amore. Certo, la bellezza della trasfigurazione non allontana dalla fragilità, non allontana dalla debolezza, non allontana dallo spessore umano e neppure dalle fatiche. Ecco perché contemplazione della bellezza e conversazione sull’esodo, sulla necessità della passione non sono incompatibili, ma anzi possono nutrirsi a vicenda. Il monaco nella sua vita dovrà proprio esercitarsi a inserire nella bellezza la necessità della passione. Poi, certo, la vivrà come potrà, perché siamo deboli e fragili, ma è importante inscriverla come insegna la trasfigurazione.


 

Quest’anno io ho vissuto e vivo una grazia particolare, in parte condivisa dalla comunità, ma è una grazia essenzialmente fatta a me. Pochi giorni fa uno dei primi cinque fratelli, Edoardo, ha fatto éxodos, è andato da questa vita al regno di Dio; e ora Fabio questa sera fa la sua entrata. Ritengo che sia una grande grazia quella che mi ha fatto il Signore, l’avermi fatto vivere il primo esodo di un fratello accanto all’entrata del più giovane tra i fratelli. I due eventi così vicini diventano capaci di insegnarmi, e spero di insegnarci, molte cose; di farci capire molte cose nella nostra vita monastica; di darci soprattutto una lezione sulla fedeltà, sulla perseveranza, sul non venire meno e sull’arrivare alla morte senza aver spezzato il legame con i fratelli. Abbiamo davanti a noi ancora Edoardo, uno dei primi fratelli, che ha terminato la sua corsa nella fedeltà. E che cosa abbiamo capito? Abbiamo capito forse per la prima volta quanto sia importante la perseveranza, che è proprio quella che dice la verità di una sequela. Non dicono la verità di una sequela le grandi cose che uno può fare, neppure i miracoli, se li fa; e non dicono una grande cosa della sequela neppure i peccati che uno compie, non le cadute, non le inadeguatezze, non le virtù, ma la perseveranza fedele sì. E che cosa significa perseveranza nella vita monastica? Significa due cose semplici: non rinnegare la fede, non rinnegare i fratelli. Un monaco che sta davanti a Dio, Giudice di ogni vita, dovrà dire almeno questo: ho conservato la fede, ho conservato la fraternità, l’alleanza stipulata.

Caro Fabio, ti ha preceduto nell’entrare nel regno un fratello, e tu stasera entri a vivere questa comunione in una pienezza che la comunità ha raggiunto proprio con l’esodo di Edoardo. Adesso siamo comunione piena: finché uno di noi non era morto, non eravamo una piena comunione, eravamo comunione solo tra noi di qui. Adesso invece uno di noi è nel regno, c’è una nuova dimensione nella nostra comunione, possiamo dire che la nostra comunione si è aperta alla comunione dei santi. Ecco, è in questa comunione, Fabio, che tu entri. Noi ti accogliamo con grande gioia, con profonda convinzione della tua vocazione, ti accogliamo come fratello per sempre e certamente con l’aiuto del Signore ti promettiamo che non verremo meno, che non ti tradiremo, perché sei nostro fratello fino alla morte e al di là della morte.

Mi sembra doveroso, al termine di questa nostra rilettura del vangelo, prima di accogliere la professione monastica di Fabio, dire una parola anche a sua madre che è qui in mezzo a noi. Vorrei ringraziarla perché insieme al padre di Fabio, che lo ha lasciato pochi mesi fa, hanno aiutato Fabio a crescere come uomo e come cristiano e l’hanno accompagnato fin qui all’adempimento della sua vocazione e della grazia battesimale. Voglio davvero dire un ringraziamento e invocare dal Signore le benedizioni per questo dono che loro hanno fatto al Signore ma anche alla nostra comunità.

 

ENZO BIANCHI

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Liturgie funèbre de fr. Edoardo


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Bose, 26 juin 2013
Homélie d'ENZO BIANCHI
Chacun d'entre nous est le don que le Père fait au Fils Jésus, et si chacun de nous y consent, voici l'assurance de ses paroles: “Je ne le mettrai pas dehors”

Bose, 26 juin 2013
Homélie d'ENZO BIANCHI

vidéo de la liturgie

écouter l'hmélie:

TEXTE ORIGINAL DE L'HOMELIE
EN LANGUE ITALIENNE
 Gv 6,37-40

Colui che il Padre mi dà verrà a me, e colui che viene a me io non lo caccerò fuori … Questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda colui che mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno (Gv 6,37.39).

Queste parole di Gesù, pronunciate nella sinagoga di Cafarnao, intersecano in modo indissolubile parola di Dio, corpo e sangue del Signore e resurrezione, vita eterna. Potremmo dire che la nostra vita è tutta costruita su queste polarità, che tentiamo di accogliere, più che di vivere, come il dono di Dio. Queste di Gesù sono parole brevi, essenziali, ma sono capaci di darci una speranza proprio dove la nostra fede si mostra debole e vacilla, proprio dove le nostre paure e le nostre angosce sembrano prevalere sulla nostra poca fede. Dio, che per noi è il vero amante, è il Padre che ci ha voluto chiamare alla vita e ha voluto darci a suo Figlio. Darci a suo Figlio significa che ha voluto conformarci all’immagine di Gesù (cf. Col 1,15-17), che ha voluto fare al Figlio il dono più bello, cioè la vita di ciascuno di noi, la vita degli uomini. Il Figlio da sempre aveva bisogno di noi, come ognuno di noi ha bisogno di avere un corpo; il Figlio ha bisogno di noi, come ognuno di noi ha bisogno di avere qualcuno da amare e a cui fare i suoi doni; il Figlio ha bisogno di noi perché è completamente unito al desiderio del Padre e vuole che in lui ogni creatura sia salvata e in pienezza di comunione.

Proprio donando l’amore, avendo bisogno dell’amore, Dio ama l’amore, e l’amore grida all’amore, in un’estasi che non ha mai fine. Ognuno di noi è il dono che il Padre fa al Figlio Gesù, e se ognuno di noi vi acconsente, se dice “amen” a questa volontà di Dio e va da Gesù, ecco l’assicurazione delle sue parole: “Io non lo caccerò fuori”. Proprio Gesù, conoscendo l’amore del Padre, porta a compimento il suo desiderio e fa entrare ciascuno di noi con lui dentro il Regno, nella vita eterna. In queste parole di Gesù non ci sono chieste grande qualità morali, non ci è chiesta l’innocenza, non ci è chiesta neanche la mancanza di peccati: ci è chiesto soltanto di andare da Gesù, di andare dal Figlio per vedere un uomo, ma quell’uomo come Dio lo ha voluto e, nella sua umanità, vedere, riconoscere Dio. La fede è cristiana è molto semplice, potrebbe essere riassunta in questa breve affermazione: “Dio è umano e chiunque riconosce l’uomo riconosce Dio, e chiunque cammina nell’umanizzazione cammina nella divinizzazione”. Gesù non perderà chi va a lui, non lascerà che gli sia strappato dalla mano, e neppure la morte sarà in grado di operare questa separazione: Gesù nell’ultimo giorno risusciterà chi è andato a lui, per la vita eterna. E la storia di salvezza non si divide tra quelli che non hanno peccato e i peccatori, ma si divide, sì, tra quelli che sono andati da Gesù perché hanno capito che Dio è umano e chi non vi è andato perché sentiva l’umanità impossibile da amare, perché sentiva gli uomini impossibili destinatari della fiducia, perché pensava che questo mondo non meritasse la speranza.


 

Ma dopo aver confessato le parole di Gesù, possiamo anche leggerle nella vicenda di Edoardo, in quest’ora pasquale in cui lui, qui in mezzo a noi, celebra il suo esodo da questo mondo al Padre. Perché non siamo noi che celebriamo il suo funerale, è lui il vero celebrante di questa eucaristia e celebra il passaggio da questo mondo al Padre, lo celebra in Cristo morto e risorto. Più che mai Edoardo muore con Cristo, è sepolto con Cristo e risuscita con lui per la vita eterna (cf. Rm 6,4; Col 2,12).

Ricordiamolo. Edoardo era in ricerca di un Dio umano e approdò a Taizé, incontrando fr. Roger nel 1966. Fr. Roger mandò lui e Bruno Dente – che non può essere qui, ma che ho sentito ieri sera, suo amico, anche lui in ricerca – a trovarmi a Torino, in via Piave. Vennero un mattino di novembre e confrontarono le loro attese con le mie, che ero ormai già da un anno qui a Bose. Io offrii loro Bose, e l’anno successivo, il 1967, Edoardo venne solo a passare qualche giorno a Bose. Abbiamo una fotografia in cui è a tavola nel cortile della comunità davanti a quella cappellina in cui per anni ha pregato e dove fino a stamattina ha riposato il suo corpo. Poi il silenzio, la lontananza, ma improvvisamente nel settembre del 1969 venne. Ero solo ed ero a imbottigliare la mostarda nella stanza attualmente chiamata Cana. Disse con la sua arguzia: “Per poter mangiare questa marmellata occorre diventare monaci di Bose? Io ho deciso di venire”. E dopo qualche mese giunse anche lui, il terzo fratello dopo Domenico e Daniel. Dio l’aveva dato al Figlio, affinché lo seguisse nella vita comune, tentando di diventargli conforme.

Edoardo era di condizione nobile, ricca, di una famiglia prestigiosa, e spogliò se stesso, conoscendo la povertà, la fatica, il duro mestiere di vivere, nella diffidenza della chiesa e senza nessuno che fosse un appoggio e un sostegno. Conobbe il freddo di Bose, la mancanza di tante cose essenziali, non superflue, e mai si lamentava. Nella sua discrezione a volte ha anche sofferto, senza mai esternare le sue fatiche, ma dicendo sempre la sua obbedienza, anche quando l’obbedienza gli costava e anche quando era molto contraddetto nella vita comune. Edoardo non vuole che noi parliamo di lui e noi lo rispettiamo, ma è nostro dovere dire che è stato un monaco fedele, perseverante fino alla fine nella vocazione monastica e nella comunità, qui a Bose, poi in Israele, poi di nuovo qui a Bose fino alla morte. Era un uomo fedele, e per il Vangelo è soltanto questo che è decisivo. I peccati Dio li perdona e li dimentica: ciò che chiede è semplicemente la fedeltà, la perseveranza, la vicinanza non a parole, non con promesse, ma chiede quella postura che nella chiesa si chiama stare in medio, “stare in mezzo”, stare in mezzo ai fratelli senza venire meno. Alla sua fedeltà Gesù risponde con la fedeltà, chiamandolo dove lui è e per darlo al Padre come una vita offerta. Un monaco fedele, perseverante, che ha detto anche il suo “amen” a Dio che lo chiamava per prenderlo nelle sue braccia; lo ha detto a fatica, non è stato per lui facile affrontare questa morte, in una pienezza di vita, ma ha saputo poi dirlo. È il primo fratello della comunità che se n’è andato. Per tutti noi sia lezione e consolazione.


 

Sappiamo tutti cosa diceva Voltaire dei monaci, e dobbiamo ringraziarlo per aver letto il monachesimo e averci dato una lezione. Diceva Voltaire: “I monaci si mettono insieme senza conoscersi”, ed è proprio vero, perché noi ci mettiamo insieme anche se non ci conosciamo e cerchiamo di amarci anche se non ci conosciamo. Continuava Voltaire: “Vivono insieme senza amarsi”, e questo per noi non è vero; a fatica, con le contraddizioni di ogni amore, ma ci amiamo, ci siamo amati e ci amiamo. E terminava Voltaire: “Muoiono insieme senza rimpiangersi”, e anche questo non è vero, perché proprio questo primo esodo di un fratello ci ha fatto vedere la cura, la vicinanza di tutta la comunità a lui e la sofferenza per la sua morte. Questi mesi sono stati un esercizio di amore fraterno. Alcuni, certamente i più giovani di noi, non hanno conosciuto bene Edoardo. Voglio però ricordare loro – se non l’hanno ancora capito – che la nostra vita comune non è giustificata dal fatto che ci conosciamo gli uni gli altri, ma è giustificata dal fatto che ci sforziamo di credere gli uni altri. Questo è fondamentale nella vita monastica, ed è una cosa diversa: avere fiducia gli uni negli altri, la conoscenza è sempre parziale, e ognuno di noi ha delle totali, radicali incapacità di conoscere magari alcuni altri… Nella vita monastica non c’è nessun fondamento nella conoscenza, ma nell’esercizio della fiducia questo sì.

Ecco, guardando alla nostra verità di comunità del Signore, qui in assemblea, vera comunione, vero corpo del Signore di cui Edoardo è un membro ormai nella gloria, diventiamo ora consapevoli di essere nell’eucaristia il corpo di Gesù Cristo stesso, perché il Padre ci dà al Figlio e il Figlio ci risusciterà nell’ultimo giorno.

ENZO BIANCHI

  video della liturgia

Obsèques de don Luigi Pozzoli


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Milan, 21 décembre 2011
Homélie d'ENZO BIANCHI
Don Luigi nous a parlé, mais il nous parle encore; il a prié pour nous, mais désormais il prie davantage encore; il s'est réjoui avec nous, mais il est entré maintenant dans la joie en plénitude

Milan, 21 décembre 2011
Paroisse de Santa Maria al Paradiso
Homélie de ENZO BIANCHI

 

Texte original de l'homélie en langue italienne.

  «Venne Gesù, stette in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”» (Gv 20,19). Abbiamo ascoltato l’annuncio cristiano per eccellenza, l’annuncio della resurrezione di Gesù, l’annuncio che l’amore è più forte della morte (cf. Ct 8,6). Perché la resurrezione di Gesù significa questo: che Gesù «avendo amato fino alla fine, fino all’estremo» (eis télos: Gv 13,1) quelli che aveva incontrato e in mezzo ai quali era vissuto, non poteva restare preda della morte, come dice Pietro nel suo primo discorso post-pasquale (cf. At 2,24). Per questo Dio lo ha risuscitato, in modo che apparisse a tutti gli uomini che c’è un vincitore possibile della morte: l’amore.

Eccoci davanti a un uomo, un cristiano, un presbitero che è morto. È qui in mezzo a noi, è lui il celebrante di questa liturgia in cui viene manifestato il suo esodo pasquale da questo mondo al Padre: è don Luigi che davanti a Dio, in giudizio davanti al Signore, presenta la sua vita, e della sua vita soprattutto le relazioni intessute, la capacità di amore, di amicizia. È don Luigi che oggi diventa il testimone del fatto che l’amore vince la morte. Don Luigi ha sempre parlato e scritto di questo mistero della nostra fede, l’ha vissuto come prete, nel suo ministero, in particolare qui in questa parrocchia. La sua fede era avvolta da grande saldezza e serenità. E se, soprattutto attraverso il suo amore per la letteratura e le sue ricerche in questo campo, aveva conosciuto e gridato le parole a volte disperate dell’uomo (in Cioran, Camus, Canetti e tanti altri da lui letti e indagati), cionondimeno la sua fede-adesione, semplice e sempre stupita come quella di un bambino, innestava fiducia in chi lo ascoltava.


 

Non si possono non ricordare la sua intensa ricerca dei rapporti tra fede e letteratura, la sua collaborazione con il centro culturale «San Fedele» e con la rivista Letture; né si possono dimenticare i suoi diversi commenti al lezionario biblico festivo nei quali, in piena fedeltà all’ispirazione biblica, sapeva aprire orizzonti di luce per tutti, cristiani e non cristiani, attraverso pensieri brevissimi, quasi aforismi, parole come «frecce» (iacula) sempre cariche di tenerezza, di misericordia e di pazienza.

Di don Luigi vorrei però ricordare soprattutto l’umanità, cioè la spiritualità, quella che traspare da libri come L’abito rosso, La beatitudine del naufragio e i suoi Pensieri vagabondi... Parole in libertà e di libertà, parole del suo diario intimo (mai cronache!), nelle quali come la sua vita sia sempre stata abitata da amici, un’autentica comunione nell’amicizia. Lui così solitario, ma mai isolato, mai solo… Certamente questi amici ora sono tutti qui. Sì, siamo qui: quelli che se ne sono andati, come David Maria Turoldo, Camillo De Piaz, Nazareno Fabbretti, Ernesto Balducci, Abramo Levi, Michele Do; e noi che siamo presenti: io, amico suo e di tutti quelli che ho nominato, Angelo Casati e tanti altri tra voi...

Abbiamo vissuto l’amicizia, questo balsamo nella nostra vita di viandanti in cerca di una terra sempre lontana, noi presbiteri e monaci che amiamo cantare, come facevamo da don Michele Do: «Dov’è carità e amicizia, lì c’è Dio!». Tutti amici che amavamo incontrarci, parlarci cor ad cor, ascoltarci, stare insieme a tavola. Quante volte, parlando delle cose di Dio, che sono poi quelle dell’uomo, ascoltavamo le parole, gli apoftegmi di don Luigi, sempre un canto alla vita, al buon vino, al cibo fragrante… Don Luigi ci chiamava qui, in Santa Maria al Paradiso, anche per la sua gente, per voi suoi amici quotidiani, e finché lui ne è stato parroco sono venuto ogni anno. Per me si trattava di qualcosa di raro: in tutti questi anni ho accettato di venire a Milano a tenere incontri solo qui da lui, da don Angelo Casati a San Giovanni in Laterano e da don Erminio De Scalzi, vescovo e abate della basilica di Sant’Ambrogio.


 

C’era il miracolo dell’amicizia quando ci ritrovavamo per stare insieme qui, o a Bose, o a Saint Jacques di Champoluc, per guardarci negli occhi sorridendo. Quell’amicizia che ci faceva parlare della chiesa a volte con gioia, soprattutto nei decenni del Concilio; poi ne abbiamo parlato spesso con sofferenza, perché grande, essenziale, decisivo era ed è il nostro amore per la chiesa. Sapevamo e sappiamo che «la vera chiesa non è quella che siamo pronti a denunciare!», come diceva don Luigi.

Don Luigi ci ha parlato, ma ci parla ancora; ha pregato per noi, ma ora prega per noi ancora di più; ha gioito con noi, ma ora gioisce ancora di più, in una comunione che lui sente più vera e più profonda di quanto possiamo sentirla noi. A questa tavola eucaristica, unica sulla terra e sull’altare del cielo, egli è commensale con noi e ci dice: «Communicantes in unum».

E voglio concludere con una preghiera che don Luigi ha scritto alla fine del suo L’abito rosso (Scheiwiller, Milano 2003, pp. 136-138):

Signore, vedi, siamo qui, semmchi.
In questo punto di un cammino che tu conosci.
Non lasciarci soli, abbandonati a noi stessi.
Non lasciarci smarriti.
«Ora lascia che il tuo servo se ne vada in pace»,
perché è venuta l’ora: L'èurade'ndà.

ENZO BIANCHI

Trasfiguration du Seigneur


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5-6 août 2012   
Homélie de ENZO BIANCHI
Seul celui qui regarde, pense et a souci des autres sauve sa vie et continue de regarder en voyant; en ne regardant que soi-même on regarde sans voir

   Bose, 5-6 agosto 2012
Omelia di ENZO BIANCHI

  Mc 9,1-10    

toutes les homélies du Prieur ENZO BIANCHI   

Professione monastica definitiva
di sr. CHIARA CANEPA e sr. SARA LATTUADA

Écouter l'homélie (en italien):

 

 TEXTE ORIGINAL ITALIEN DE L'HOMÉLIE

Cari fratelli e sorelle,
ancora una volta siamo in veglia, ben desti in questa notte, siamo insieme, radunati nello stesso luogo per contemplare Gesù Cristo, l’uomo Gesù che ci ha raccontato Dio (cf. Gv 1,18) e l’ha potuto fare vivendo pienamente da uomo, uomo come noi e come ciascuno di noi. Noi guardiamo a Gesù, cerchiamo il suo volto, teniamo fissi gli occhi su di lui (cf. Eb 12,2), gli occhi del cuore certamente, perché in questo nostro sguardo la nostra ragione e il nostro cuore, la nostra intelligenza e il nostro sentimento trovano un punto, focalizzano un centro al quale noi sentiamo di affidarci, di consegnarci totalmente. In questo centro sentiamo che le nostre vite possono avere senso, possono essere salvate, potremmo dire. È guardando a Gesù Cristo che la nostra razionalità e la nostra affettività si integrano, per rendere possibile un’esperienza spirituale che ci edifica come uomini, uomini che devono essere sempre di più uomini veri, uomini autentici. È proprio guardando a Gesù, con gli occhi del nostro cuore, che impariamo da lui uno stile, una postura, nella quale gli altri possono trovare con ogni probabilità un riflesso di quella presenza buona, accogliente che aveva Gesù.

Questa contemplazione di Gesù tentiamo di viverla attraverso il vangelo di Marco che abbiamo ascoltato come parola che Dio rivolge a noi, qui, ora. Marco ha inserito il racconto della trasfigurazione di Gesù – ed è importante che notiamo questo, perché è Marco che ha creato il racconto del vangelo – dopo l’annuncio della passione e prima dell’annuncio del ritorno di Elia. Conosciamo bene l’incipit di questa sezione: «Gesù cominciò a insegnare», «érxato didáskein» (Mc 8,31), cominciò, incominciò. Quell’insegnamento è nuovo per i discepoli: è un insegnamento che urta contro tutto quello che Gesù aveva fatto e detto; è un insegnamento in cui Gesù dice che «il Figlio dell’uomo doveva soffrire molte cose» (cf. ibid.). E a questo inatteso, nuovo insegnamento di Gesù sulla necessità di soffrire molte cose, Pietro reagisce rimproverando Gesù (cf. Mc 8,32). Ma Gesù dà una lezione pubblica a quel suo discepolo che lo aveva preso in disparte (cf. Mc 8,33); Gesù che parla sempre chiaramente e non ha nulla da dire ad un discepolo personalmente, chiama a sé la folla e tutti gli altri e dice con voce molto alta: «Se qualcuno vuole venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mc 8,34).

È una parola per ciascuno di noi, una parola di fronte alla quale possiamo anche sentirci inadeguati, ma è una parola che non dobbiamo annacquare, indebolire. Chi vuole stare alla sequela di Gesù e vuole essere suo discepolo, deve smettere di guardare a se stesso – questo è il vero senso del «rinnegare» –, deve smettere di riconoscere solo se stesso; e in questa operazione di non guardare a se stesso, di smettere di riconoscere se stesso, con tutte le forme di narcisismo e di egoismo che sono connesse allo sguardo su se stessi, occorre arrivare anche a perdere la propria vita. Ma questa, dice Gesù, è la condizione per essere riconosciuti dal Figlio dell’uomo quando verrà nella sua gloria con i suoi angeli (cf. Mc 8,38). Questa è la condizione per vedere il Regno di Dio che viene con potenza anche prima di morire (cf. Mc 9,1). Queste parole di Gesù devono apparirci decisive: o uno smette di guardare a se stesso per guardare a Gesù, e in Gesù guardare agli altri, oppure continua a guardare se stesso, e allora resta incapace di vedere il Regno che viene con potenza e non potrà essere riconosciuto dal Figlio dell’uomo, quando egli verrà.


 

Questo è quello che ci dice Marco, preparandoci così all’evento della trasfigurazione. Marco continua: ed ecco, «sei giorni dopo» (Mc 9,2), sei giorni dopo questa parola, questo nuovo insegnamento di Gesù, ecco la realizzazione di questa promessa, non per tutti i Dodici, non per tutti i discepoli, ma per almeno tre, Pietro, Giacomo e Giovanni. Gesù prende con sé questi tre, che non erano i più amati da lui: guai se diciamo che erano prediletti, come diciamo del discepolo amato da Gesù nel quarto vangelo; erano amati, amati in modo diverso e soprattutto amati in forza del grado della fede che avevano e del coinvolgimento che avevano saputo avere con la vita di Gesù. Gesù «li conduce in disparte, soli» («kat’ idían mónous»: ibid.), e mentre gli altri stavano a valle, mentre gli ebrei festeggiavano vestiti di bianco la festa dell’Hoshannà rabbà, del grande Osanna, Gesù e i suoi sono in disparte, soli, su un alto monte.

E qui avviene una trasformazione, una metamorfosi, certamente di Gesù e forse anche dello sguardo dei discepoli. Sappiamo bene che su questa trasformazione si sono soffermati soprattutto i padri greci, dando alcune risposte che portano un sapore monofisita: quasi per non riconoscere ciò che in Gesù era veramente umano, finiscono per dire che Gesù era sempre trasfigurati e che qui si è trasfigurato soltanto lo sguardo dei discepoli. Sant’Andrea di Creta dice che Cristo non si è trasfigurato, è restato quello che era, ma è lo sguardo dei discepoli che è mutato, che è diventato capace di vedere ciò che prima non vedeva. Noi che non abbiamo la grazia e l’intelligenza di questi padri, preferiamo accogliere il testo evangelico il quale ci dice che il corpo di Gesù, quel corpo di uomo nato da donna, quel corpo di miseria, quel corpo «è stato trasfigurato» («metemorphóthe»: ibid.). Crediamo anche però che lo sguardo dei discepoli diventò capace di vedere «il sôma pneumatikón», «il corpo spirituale» (1Cor 15,44) del Figlio di Dio.

Poveri discepoli! Pietro che non capiva la necessità del patire molte cose da parte del Figlio dell’uomo, Pietro e gli altri che dopo questo evento, questa esperienza evento di fede continuano a domandarsi: «Ma che cosa significa risorgere dai morti?» (cf. Mc 9,10). Poveri discepoli, immagine di tutti noi, immagini delle nostre chiese, immagine delle nostre comunità intontite, che non capiscono: siamo noi, ciascuno di noi in questa condizione. Però sul monte Gesù è stato visto da questi discepoli così inadeguati, in altra forma, nella forma della gloria, splendente e luminoso come l’Elohim del salmo 76 che abbiamo cantato nei vespri: «Splendente di luce sei tu e magnifico nell’alto delle montagne eterne» (Sal 76,5). Ma in quel momento la voce del cielo lo chiama Figlio amato, cui deve andare l’ascolto dei discepoli: «Ascoltatelo!» (Mc 9,7). Certamente per vedere Gesù nella gloria, per sentire questa voce del Padre, i tre discepoli avevano perlomeno predisposto tutto perché in loro potesse operare la grazia; non erano capaci di capire, ma erano capaci di accogliere il dono del vedere, e del vedere ciò che occhio d’uomo non vide (cf. 1Cor 2,9), non può vedere.


 

Sappiamo tutti che la capacità dell’occhio di svolgere la sua funzione si regge sulla sua incapacità di percepire se stesso, di guardare a se stesso. È la legge dei nostri occhi: noi vediamo perché l’occhio non vede se stesso. Ma così è anche del nostro occhio spirituale: per vedere Cristo un discepolo non deve guardare a se stesso ma guardare a Cristo, guardare all’altro, agli altri. Gesù con quella sua predizione della passione aveva invitato i discepoli a guardare in modo diverso a lui, ad assumere quel nuovo insegnamento che dava un altro sguardo, un’altra ottica; ma soprattutto aveva insegnato, se leggiamo bene il vangelo, a non guardare a se stessi e neppure a guardare a Gesù pensando come si pensa a se stessi, perché anche questo può accadere purtroppo! Chi infatti guarda troppo a se stesso si perde. Solo chi guarda, pensa, ha cura degli altri salva la sua vita e continua a guardare vedendo, altrimenti guardando a se stesso guarda senza vedere. Vedere con altri occhi, andare avanti cercando di vedere l’invisibile (cf. Eb 11,27), questa è la nostra vita dietro a Gesù, questa è la nostra scommessa. Pietro il Venerabile dice che noi monaci dovremmo essere dediti all’arte della perscrutatio, del vedere in profondità, del vedere oltre, del vedere sempre l’altro: l’Altro con la «a» maiuscola, Dio, l’altro che nel quotidiano è semplicemente chi incontro ed è sempre un mio fratello. È con uno sguardo altro che i tre discepoli hanno potuto vedere nella trasfigurazione la passione, di cui parlano Gesù, Mosè ed Elia (cf. Mc 9,4), e più tardi hanno potuto vedere nella passione la trasfigurazione.

Questa lettura della trasfigurazione vuole essere un invito a non guardare a noi stessi, altrimenti la nostra vita monastica può diventare una vita non cristiana. Non dimentichiamocelo: gli altri sono richiamati dalla realtà dei figli, sono richiamati dalla realtà dell’amore di un amante. Noi che non siamo richiamati da queste cose rischiamo di guardare a noi stessi, e sovente nella vita monastica il celibato è un narcisismo, né più né meno, che impedisce di vivere ciò che il Signore chiede da una vita monastica: non guardare a se stessi, andare avanti, guardare a Cristo. Ammiro quei monaci che arrivano nell’anzianità ad avere anche una fede scarsa, ma che sanno mantenere l’amore per il Signore Gesù e continuano a guardare a lui, e non a guardare a se stessi.

Ecco, mi rivolgo con queste parole a Chiara e a Sara, non ho altre parole da rivolgere loro, perché Chiara e Sara possano vedere altrimenti, vedere con il cuore, vedere le realtà invisibili che non passano (cf. 2Cor 4,18) e che dunque sono decisive per noi, decisive per la morte o per la vita. Chi perde la sua vita per gli altri, anche se magari la perde male, in verità la perde per Dio e in Dio, e dunque la salva, anche se apparentemente sembra essere più perduto degli altri. Dopo questi tanti anni, ben più di sette, Chiara e Sara attraverso una lotta spirituale sono giunte all’ora dell’impegno definitivo davanti al Signore e alla chiesa. Entrano nella nostra alleanza e sono portate a un primo adempimento della vocazione cristiana che è stata data loro nel battesimo. È un primo compimento, ma questo è un nuovo inizio, perché la vita cristiana è «un ricominciare sempre di inizio in inizio, per inizi che non hanno mai fine» – ci ricorda Gregorio di Nissa –, è un riprendere la sequela in una nuova condizione. Chiara e Sara, cercate di perseverare, per giungere all’ora in cui il Signore compirà totalmente in voi ciò che da sempre ha preordinato: lo compirà lui, voi vi accorgerete che non riuscite a compiere nulla, ma il Signore porterà a quel compimento (cf. Fil 1,6), accogliendovi nel Regno eterno. Lì si misura la propria salvezza, lì si misura il senso della propria vita.

ENZO BIANCHI

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Pâques du Seigneur


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Bose, 24 avril 2011
Homélie de ENZO BIANCHI
De cela seulement nous avons besoin: de pouvoir croire que l'amour que nous avons vécu, l'amour partagé avec ceux que nous avons aimé, que cet amour demeure
Bose, 24 aprile 2011
 
Matteo, 28,1-10       

écouter: l'homélie dei ENZO BIANCHI, prieur de Bose

 

Texte original italien:

Carissimi,
con questa veglia siamo giunti alla pienezza del triduo pasquale, al terzo giorno, al «tutto è compiuto» (cf. Gv 19,30), un «tutto è compiuto» cantato dal Cristo vivente e glorioso, risorto per sempre, un «tutto è compiuto» cantato dalla chiesa, da coloro che hanno seguito Cristo e che lo acclamano Kýrios, Signore.

La lunga veglia, in cui abbiamo ascoltato le sante Scritture dell’Antico e del Nuovo Testamento, ci ha permesso di contemplare la storia della salvezza, l’azione di Dio, dall’in-principio fino al compimento delle sue promesse in Cristo. Questa veglia ha soprattutto uno scopo: farci comprendere la Pasqua, la resurrezione, e renderci partecipi di questo mistero, il mistero della vittoria di Dio sulla morte, del «Dio» che «è amore» (1Gv 4,8.16) sulla morte. Perché solo di questo noi terrestri abbiamo bisogno: di poter credere che l’amore che abbiamo vissuto, l’amore condiviso con quelli che abbiamo amato e che amiamo, l’amore di cui siamo stati capaci – combattendo il nostro egoismo, la nostra philautía, la nostra voglia di sopravvivere senza gli altri, magari contro gli altri, ma appunto di vivere sopra, di sopra-vivere –, ebbene questo amore sia un amore che rimane, che contiene qualcosa dell’eternità, un amore che ci possa permettere di dire nel presente e nel futuro: «Io amo, anche quando l’altro che io amo non è più». Proprio per questa speranza, proprio perché noi uomini abbiamo bisogno di comprendere, di capire soprattutto la nostra morte, vogliamo ascoltare ciò che il vangelo, la buona notizia ci dice di questa vittoria dell’amore sulla morte.


 

Nei giorni precedenti ci siamo soffermati sul racconto dell’ultima cena, il racconto in cui Gesù ha dato il segno del suo amore, l’eucaristia, e ci siamo anche soffermati sulla passione vissuta da Gesù, mettendo a fuoco come Gesù abbia risposto prima con l’eucaristia, nient’altro che passione prefigurata, e poi con la vita, un unico amen: un amen dossologico a Dio suo Padre, ma anche un amen a quelli che erano stati suoi fratelli, coinvolti nella sua vita, fratelli che erano giunti a mostrarsi avversari e persecutori. E concludevo la meditazione del venerdì santo con il seppellimento di Gesù nella tomba quale attesa della risposta del Padre. Gesù ha risposto – potremmo riassumere – a tutti ha risposto, «amando fino alla fine» (cf. Gv 13,1) e senza mai contraddire l’amore. Ma quando ha rimesso tutto nelle mani del Padre, quando ha deposto anche il suo respiro (cf. Lc 23,46; Sal 31,6), Gesù è entrato nell’attesa di una risposta. Per gli uomini, per Pietro, per Giuda, per gli altri dieci, per i sommi sacerdoti, per il potere politico romano, con la morte di Gesù era finita una vicenda, era veramente finita: una tomba con una pietra rotolata sulla porta dice anche visivamente che tutto è davvero finito. Secondo Matteo ci sono addirittura delle guardie che vigilano sulla tomba, perché resti chiusa, perché nessuno la apra, perché nessuno venga a rubare il cadavere di Gesù e poi intoni la favola, la leggenda che lui è risorto (cf. Mt 27,62-66).

Ma all’alba del primo giorno dopo il sabato, Maria di Magdala e l’altra Maria vanno a visitare il sepolcro. Ed ecco, proprio mentre guardano il sepolcro, sono colte da un evento di rivelazione. Un angelo del Signore, l’angelo interprete della parola di Dio, l’angelo interprete degli eventi operati da Dio nella storia, ebbene quest’angelo dice alle donne: «Non abbiate paura voi. So che siete alla ricerca di Gesù il crocifisso. Non è qui, è risorto, secondo le sue parole. Andate a dire ai suoi discepoli: “È risorto dai morti e vi precede in Galilea: là lo vedrete”». Queste parole dell’angelo interprete le abbiamo ascoltate tante volte, perché sono l’annuncio pasquale per eccellenza, sono anche l’essenziale della buona notizia per gli uomini. Gesù il crocifisso, dunque colui che era morto sulla croce, è risorto, e la tomba infatti è vuota. Sono parole che paiono insensate, contro la ragione, soprattutto contro l’evidenza della morte quale realtà da cui nessun uomo è mai tornato. Eppure queste parole di interpretazione vogliono dire una verità che è ben più grande di un miracolo, ben più profonda dello straordinario contenuto nell’annuncio: «Eghérte», «È risorto, si è destato». Questo è il grido della Chiesa, il grido liturgico, ma, come dice Pietro nella sua prima omelia dopo la Pentecoste, questo grido continua a significare: «Dio lo ha risuscitato, questo Gesù Dio lo ha risuscitato» (cf. At 2,24.32). Dio, il Padre di Gesù, colui che Gesù invocava nella fede e chiamava: «Abba, Padre» (Mc 14,36), gli ha risposto al di là della sua morte.


 

Gesù è morto, è realmente morto, morto come muore un uomo, morto come muore una vita animale. Ma Dio lo ha rialzato dalla morte e gli ha dato la sua vita divina, la vita eterna. Non ha rianimato un cadavere, non ha fatto tornare in vita un morto – facciamo attenzione – ma gli ha dato la sua stessa vita, la vita divina, la vita eterna. Proprio uno dei testi più antichi che possediamo, più antico degli scritti dei vangeli, il prologo della Lettera di Paolo ai Romani, dice: «Cristo Gesù … nato dalla stirpe di David come uomo, [è stato] costituito Figlio di Dio con la potenza dello Spirito santificatore nella resurrezione dai morti» (Rm 1,1.3-4). Ecco la risposta del Padre a Gesù, che rivela pienamente la paternità di Dio nei confronti di Gesù: è la risposta del Padre alla morte filiale di Gesù. Se c’è una rivelazione di Dio Padre, per noi cristiani, non ci viene neanche dall’invocazione fatta da Gesù: «Padre nostro» (Mt 6,9), ma ci viene soprattutto dall’azione con cui Dio ha fatto risorgere Gesù e lo ha fatto suo Figlio. Non solo, ma significativamente Paolo nella sua predicazione di fronte ai giudei di Antiochia di Pisidia afferma: «Dio ha risuscitato Gesù, come sta scritto nel Salmo secondo: “Mio Figlio sei tu, io oggi ti ho generato” (Sal 2,7)» (At 13,33). Questa esegesi dell’Apostolo sul Salmo 2 è un’esegesi canonica, dunque definitiva: la morte in croce di Gesù è in realtà una nascita alla pienezza di vita, è proprio perché Gesù ha saputo morire da Figlio, il Padre ha dovuto – potremmo dire – mostrarsi davvero Padre e dunque rialzare suo Figlio da morte.

In questa luce della morte come vera generazione di Gesù a Figlio di Dio, comprendiamo anche alcune parole disseminate nella Lettera agli Ebrei. Gesù che è venuto nel mondo (cf. Eb 10,5), che ha imparato la sottomissione dalla cose che ha sofferto (cf. Eb 5,8), che ha imparato la sottomissione durante tutta la sua vita, fino alla sua passione e morte, nella morte filiale ha potuto davvero dire con pienezza la parola: «Abba, Padre», senza nessuna riserva, offrendo totalmente la sua vita a Dio. Vogliamo mettere accanto le parole di Gesù alle parole del Padre secondo la Scrittura? Gesù dice: «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito», l’ultima sua parola prima di morire. E il Padre accoglie Gesù nella morte dicendogli: «Tu sei mio Figlio, io oggi ti ho generato». Ecco dove sta il «tutto è compiuto» di Gesù, l’amen di Gesù al Padre, ma possiamo adesso dire anche l’amen del Padre a Gesù. Gesù è stato fedele, è stato un amen al Padre; e il Padre è fedele, è l’amen a Gesù.


 

Gesù aveva definito la sua morte un battesimo, aveva parlato ai discepoli di un battesimo che doveva ricevere (cf. Lc 12,50). Ebbene, qui comprendiamo come la morte di Gesù è diventata davvero un immenso battistero: ogni uomo che muore è immerso in questo battistero, e nella propria morte incontra la morte di Gesù. La nostra morte è immersa nella sua morte, e con lui conosciamo dunque il rialzarci, o meglio, l’essere risuscitati da morte da un’azione di Dio che ci rialzerà, ma non solo ci rialzerà, ci darà vita, ci farà anche pienamente e radicalmente figli suoi. Ancora, basta ricordare quelle parole con cui Gesù, proprio parlando della sua morte come battesimo, ha sentito di dover chiedere ai discepoli: «Potete voi essere battezzati col battesimo con cui io sarò battezzato?» (Mc 10,38). Anche per ciascuno di noi la morte è un battesimo. Comprendiamo allora bene le espressioni che abbiamo ascoltato nella Lettera di Paolo ai Romani: siamo immersi nella morte di Cristo (cf. Rm 6,3-4), e la morte di Cristo è il vero battistero in cui tutti gli uomini sono in qualche misura immersi: credenti o non credenti, cristiani o non cristiani, la loro morte trova sempre la morte di Gesù e la morte di Gesù non è mai estranea a quella di noi uomini. D’altronde, alcuni padri della chiesa hanno osato dire che proprio nella morte troveremo la purificazione dai nostri peccati, perché la morte è un battesimo più radicale del battesimo sacramentale che abbiamo ricevuto e che ha dato inizio alla nostra vita cristiana.
«Nelle tue mani, Padre, raccomando il mio spirito» dovremo dire, e ciascuno di noi dovrà dirlo; e ciascuno di noi ascolterà la voce di Dio: «Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato». Perché nella morte saremo generati alla vita eterna, parteciperemo alla vita di Dio. La risposta del Padre a Gesù sarà anche una risposta a ciascuno di noi, perché se non ci fosse questa risposta anche per noi – ed è sempre Paolo a dirlo –, allora non ci sarebbe neanche stata la risposta per Gesù. Attenzione, nella Prima lettera ai Corinti l’Apostolo lo dice chiaramente: «Se noi non risorgiamo, neanche Cristo è risorto» (cf. 1Cor 15,16). Non afferma solo: «Se Cristo non è risorto, neanche noi risorgiamo» (cf. 1Cor 15,14.17), ma anche: «Se noi non risorgiamo, neanche Cristo è risorto». Affermazione scandalosa, ma Paolo la conferma dicendo: «Se noi non risorgeremo, vana è la nostra fede e noi siamo da considerare i più miserabili tra tutti gli uomini» (cf. 1Cor 15,19).

Al termine di questa sequela di Gesù che abbiamo cercato di fare, dall’ultima cena all’ora della resurrezione, possiamo allora dire che Gesù ha fatto al Padre una grande eucaristia, ha innalzato al Padre un grande ringraziamento. Il Padre ha gradito questo ringraziamento, lo ha accolto, e con la sua azione ha risuscitato Gesù, confermando la sua eucaristia. Ma questa conferma di Gesù è soprattutto un sigillo: avendo Gesù vissuto l’amore fino all’estremo, è degno di essere chiamato «mio Figlio», di essere Figlio del Dio che è amore, del Dio che, essendo amore, vince la morte. A me piace pensare che all’interno della vita trinitaria in cui Padre, Figlio e Spirito santo, in una circolarità, in una pericoresi, hanno uno scambio di vita, il Padre accoglie l’eucaristia del Figlio, il ringraziamento del Figlio, nello Spirito santo, ma ringrazia anche il Figlio di essergli stato fedele e di averlo rivelato a noi uomini. Davvero la Trinità è un’eucaristia reciproca nella quale noi siamo invitati a entrare.

ENZO BIANCHI