Discorso di apertura

Opening address - Antony the Great 2025

Conclusioni

2 settembre 2025
di fr. Sabino Chialà

Cari fratelli e sorelle in Cristo,
metropoliti, vescovi, monaci e monache, amici e ospiti,
a nome dei fratelli e delle sorelle, e mio personale, desidero rivolgere a ciascuno di voi una parola di benvenuto a questa trentunesima edizione del Convegno Ecumenico Internazionale di Spiritualità Ortodossa, che abbiamo voluto dedicare alla figura e all’insegnamento di Antonio il Grande, “il padre dei monaci”.

Padre dei monaci… ma non solo, come mostra la tradizione che ne ha fatto un ispiratore della vita cristiana, e come mostra il fatto che in questa sala ci sono tanti monaci e monache, ma non solo…

Antonio è in primo luogo un cercatore di Dio e un discepolo del Signore. Dice infatti Atanasio, il suo celebre biografo: “Non opere scritte, né sapienza mondana, né qualche arte, ma solo l’amore per Dio rese celebre Antonio” (VA 93,4). Per questo, nella Vita è ripetutamente ricordato come: “l’amico di Dio” (VA 4,4); “l’uomo di Dio” (VA 70,2; 71,1) e “il servo di Dio” (VA 85,5). Egli stesso, in uno degli apoftegmi giunti a noi sotto il suo nome, considera il legame d’amore con Dio come il frutto maturo della sua ricerca, quando dice: "Io ormai non temo più Dio, ma lo amo perché l’amore scaccia il timore (cf. 1Gv 4,18)” (Detti 32).

A ciò egli è giunto attraverso un’esperienza, sempre più profonda, di Cristo e dello Spirito Santo, il cui parla ripetutamente nei testi ritenuti autentici (gli Apoftegmi e le Lettere).

La figura di Cristo, pienamente Dio e pienamente uomo, è centrale nell’esperienza spirituale di Antonio. Per Atanasio egli è l’immagine vivente della fede di Nicea (di cui ricordiamo i 1700 anni). Fede nel Dio fattosi uomo, che nella sua carne e tramite la croce sana quella che Antonio torna ripetutamente a chiamare la “ferita” che il peccato ha scavato nell’umanità e nel profondo di ogni essere (2,2; 3,2; 4,2.9; 5,2; 6,2). L’essere creato porta incisa nelle sue fibre una ferita, di cui Antonio avverte il dolore soprattutto durante le lotte cui il Nemico lo induce in modo persistente. A quella ferita, Dio ha cercato di porre rimedio lungo l’intera storia della salvezza, fin dalla creazione del mondo. Ma solo ora, nel Figlio sceso nella carne dell’umanità, essa trova rimedio.

Il Cristo è anche colui che infonde forza nella debolezza; anzi, è lui che combatte in chi si tiene saldamente unito a lui. Antonio ne fa esperienza nella sua debolezza: avverte che non è lui a conseguire la vittoria, ma il Cristo, al quale egli resta legato tramite il vincolo della “fede”. Un’espressione che ricorre spesso negli scritti di Antonio è: “Fede in Cristo”. Dove “fede” non rimanda a concetti, ma a una relazione profonda e all’abbandono fiducioso; è esperienza di comunione che accompagna ogni istante della sua esistenza. Questo è quanto affiderà, nell’ultima esortazione appena prima di morire, ai due fratelli che aveva voluto accanto a sé perché potessero seppellirlo: “Respirate sempre Cristo e abbiate fede in lui” (VA 91,3). Queste brevi parole sono il suo testamento, e il cuore della sua esperienza cristiana e monastica! Respirare Cristo e avere fede in lui: farne il compagno di ogni istante della propria vita e affidarsi a lui.

L’altra via per la quale Antonio giunge ad apprendere ed esperire l’amore di Dio è lo Spirito santo. Nelle Lettere torna spesso a parlare della Potenza che abita e agisce nell’essere umano (Lettere 1,2), che egli chiama: “fuoco invisibile” (Lettere 3,3). Leggiamo in una delle sue Lettere: "Innalzate a Dio le mani del vostro cuore, cioè lo Spirito che agisce in voi, e supplicate Dio che vi faccia dono del suo grande fuoco invisibile perché dal cielo discenda fra di voi … Allora vedrete sopra il mare come delle orme di un uomo che vi porterà una pioggia spirituale, la consolazione dello Spirito paraclito" (Lettere 4,8).

 L’acquisizione dello Spirito santo, come ricorda Matta el-Meskin, è per Antonio il fine della vita cristiana.

Di tutto questo Antonio è diventato esperto lottando... Lo ricorda ancora Atanasio, narrando uno dei suoi tanti combattimenti: "Il Signore neppure in questo momento si dimenticò della lotta di Antonio e venne in suo aiuto. Come levò lo sguardo, questi vide che il tetto era come aperto e che un raggio di luce scendeva fino a lui … Antonio sentì che il Signore lo aiutava e trasse un sospiro di sollievo; liberato dai dolori, domandava alla visione che gli era apparsa: 'Dov’eri? Perché non sei apparso fin dall’inizio per porre fine alle mie sofferenze'. E gli giunse una voce: 'Antonio, ero qui! Ma aspettavo per vederti combattere; poiché dunque hai resistito e non ti sei lasciato vincere, sarò sempre il tuo aiuto e farò sì che il tuo nome venga ricordato ovunque' " (VA 10,1-3).

Antonio sarà realmente ricordato ovunque, e con l’appellativo di “padre dei monaci”. Ma potremmo chiederci: perché “padre”? Antonio non è “padre” perché fondatore o autore di una regola. La sua “fondazione” e la “regola” da lui lasciata sono la sua stessa vita. Non è “padre” neppure perché fu il primo… Il biografo infatti sottolinea che imparò da altri: da un solitario che viveva poco distante dal suo villaggio d’origine (VA 3,3); da alcuni asceti che era solito visitare (VA 3,4). Girolamo ricorda anche l’incontro con Paolo di Tebe, di poco più anziano di Antonio, dunque a lui precedente. Antonio non è “padre”, dunque, né perché fondò o scrisse, né perché precedette… Fu padre perché capace di generare, con la sua vita, al desiderio di seguire il Signore nella via monastica. È la sua capacità generativa che ne fece un “padre”! Una capacità generativa che assunse vari volti.

Innanzitutto quello della cura. Atanasio insiste su questo aspetto (VA 15,1). Dice che le sue parole erano come una medicina (VA 56,2); e afferma: “Veramente Dio l’aveva dato all’Egitto come medico!” (VA 87,3). Antonio si comporta da medico e consolatore, ed è per questo capace di grande umanità. Quella che aveva imparato da Cristo, della quale ci è conservata traccia in uno dei suoi apoftegmi: "Vi era nel deserto un tale che cacciava animali selvatici. Un giorno vide abba Antonio che scherzava con i fratelli e ne restò scandalizzato. L'anziano, volendo fargli capire che a volte bisogna accondiscendere ai fratelli, gli disse: 'Metti una freccia nel tuo arco e tendilo'. Ed egli lo fece. Gli disse: 'Tendilo ancora!'; ed egli lo tese. Gli disse di nuovo: 'Tendilo!'. Gli rispose il cacciatore: 'Se lo tendo oltre misura, l’arco si spezza'. Gli disse l'anziano: 'Così avviene anche nell'opera di Dio. Se con i fratelli tendiamo l’arco oltre misura, si spezzano presto. Occorre, dunque, di tanto in tanto, accondiscendere ai fratelli'. A queste parole il cacciatore fu preso da compunzione e se ne andò, avendo ricevuto dall’anziano grande giovamento. E anche i fratelli ritornarono nelle loro dimore fortificati" (Detti 13).

Mostra poi la sua capacità generativa poiché mette a fuoco e indica quelli che la tradizione successiva contribuirà a fissare come i tre pilastri su cui poggia un sano ed equilibrato cammino monastico: il lavoro, la preghiera e la lettura delle Scritture (la triade di Benedetto). Dice ancora Atanasio: "Lavorava con le proprie mani, poiché aveva udito: Il pigro non mangi (cf. 2Ts 3,10). Parte del suo guadagno gli serviva per procurarsi il pane, parte lo distribuiva a chi ne aveva bisogno. Pregava continuamente, avendo appreso che bisogna pregare in disparte (cf. Mt 6,6), senza interruzione (cf. 1Ts 5,17). Era poi così attento alla lettura che non lasciava cadere a terra nulla delle Scritture (cf. 1Sam 3,19), ma ricordava tutto, e la memoria teneva in lui il posto dei libri" (VA 3,5-7).

Mostra la sua paternità nella perseveranza con cui sostenne la lotta fino all’ultimo respiro, senza tirarsi indietro, senza venire meno, lottando contro tutte le suggestioni del Maligno, a partire da quella che, significativamente, la raccolta dei Detti, pone all’inizio della serie: la lotta contro l’acedia, il male per eccellenza del monaco (Detti 1). Giunse così a comprendere che la tentazione non solo è ineliminabile, ma è la via per accedere alla salvezza (Detti 5); e che la vera lotta si combatte nell’intimo, in quello che la tradizione biblica chiama “cuore": "Disse ancora: 'Chi dimora nel deserto e cerca la quiete è liberato da tre guerre: quella dell’udito, quella della lingua e quella degli occhi. Gliene resta una sola: quella del cuore' " (Detti 11).

Mostra la sua paternità nella sua capacità di ricominciare ogni giorno, come dice insistentemente Atanasio nella Vita (VA 7,11-13; 18-19). La libertà di ricominciare! Perché di libertà si tratta… Libertà interiore, che la lettura della Scrittura scava nel cuore di Antonio. Per questo arriva a dire che noi monaci “abbiamo le Scritture e la libertà dataci dal Salvatore” (VA 26,4).

Libertà che seppe dimostrare in vari modi e in varie occasioni. La libertà nei confronti della propria scelta e la libertà nei confronti dei potenti.

Per la prima: Antonio sceglie il deserto e in una forma sempre più radicale, come narra il suo biografo: dal villaggio d’origine, al sepolcro, a un fortino abbandonato, al deserto esteriore e infine a quello interiore. Ma quando si presenta la necessità per il bene della Chiesa, Antonio non esita a recarsi ad Alessandria (VA 46; 69). Evita così di fare della propria scelta un assoluto e mostrandosi libero nei confronti di quel desiderio di solitudine che non lo abbandonerà mai.

Libero anche rispetto alle autorità politiche, in un’epoca cruciale, in cui i cristiani dovevano ancora imparare la giusta distanza dal potere politico. Atanasio narra che gli imperatori (Costantino e i suoi figli) gli “scrivevano come a un padre e lo pregavano di rispondere. Ma Antonio non teneva in gran conto le loro lettere, né provava piacere al riceverle”. E, continua il biografo: “Quando gli portavano le lettere, chiamava i monaci e diceva: ‘Perché vi meravigliate se un imperatore ci scrive? È un uomo! Meravigliatevi piuttosto che Dio abbia scritto la legge per gli uomini e ci abbia parlato per mezzo di suo Figlio” (VA 81,1-3). In uno dei Detti a lui attribuiti la storia è narrata in un altro modo: "Una volta abba Antonio ricevette una lettera dall’imperatore Costanzo, che lo invitava ad andare a Costantinopoli, ed egli rifletteva su cosa dovesse fare. Disse dunque al suo discepolo, abba Paolo: “Devo andare?”. Gli rispose: “Se vai, ti chiamerai Antonio, se non vai, abba Antonio” " (Detti 31).

Messaggio quanto mai attuale, proprio nel nostro tempo, questa sua libertà e capacità critica, per rifuggire ogni strumentalizzazione capace di offuscare la luce del Vangelo!

In questi giorni vogliamo dunque rimetterci in ascolto di questo insegnamento, giunti qui da ogni dove, adempiendo anche noi la profezia di Atanasio, quando dice: "Venivano a trovarlo anche da regioni straniere. E costoro, come tutti gli altri, dopo aver tratto giovamento, se ne ritornavano come accompagnati da un padre. Davvero, da quando è morto, tutti, come orfani di padre, trovano consolazione soltanto nel ricordarlo e nel custodire i suoi ammonimenti e le sue esortazioni" (VA 88,3).

Siamo anche noi espressione di questa universalità: convenuti qui per riascoltare il messaggio di Antonio, per il nostro oggi, per le nostre vite. Prima di lasciare la parola ai relatori, che ringrazio a nome di noi tutti per quello che condivideranno delle loro ricerche, vorrei dunque ricordare e ringraziare tutti voi e le Chiese che, tramite voi, sono qui presenti, ad arricchire la nostra fraternità.

Per il patriarcato ecumenico abbiamo tra noi il vescovo Anthony di Sinnada (da Boston), rappresentante ufficiale di SS il Patriarca Bartholomeos che ci ha anche mandato un messaggio (a disposizione per la lettura); il metropolita Kyrillos di Krinis, che ci farà dono di una relazione; il vescovo Athenagoras di Terme, dell’Arcidiocesi Ortodossa d’Italia. Abbiamo tra noi anche il vescovo Damaskinos. ausiliare di Tallinn, Chiesa Ortodossa di Estonia.

Per il patriarcato di Antiochia, abbiamo tra noi p. Porphyrios, dell’Arcidiocesi di Beirut, che ci offrirà una relazione. Il patriarcato di Mosca è ufficialmente rappresentato dal vescovo Pietro del Portogallo. Per la Chiesa di Serbia, il patriarca Porphirje ha delegato a rappresentarlo il protosincello Beniamijn Kovačić e l’archimandrita Nikifor Milović; mentre i monaci Kosma e Theodosije sono stati inviati dal metropolita Irinej di Bačka. Il patriarcato di Romania è ufficialmente rappresentato dal vescovo Benedict, che salutiamo nella nuova veste di vescovo di Sǎlaj, e insieme a lui salutiamo gli altri amici della diocesi di Iaşi e Timisoara che sono con noi. Per la Chiesa di Grecia, abbiamo con noi l’archimandrita Amphilochios Mîltos, cui il Santo Sinodo ha affidato un messaggio per il convengo (a disposizione per la lettura), mentre l’archimandrita Ioìl è in rappresentanza del metroppolita Ignatios di Dimitriados. Il metropolita Asti, fedele ai nostri convegni, che quest’anno accogliamo nel suo nuovo ministero di metropolita di di Berat, Vlora e Kanina, rappresenta la Chiesa di Albania e il suo nuovo Arcivescovo Ioan (al quale auguriamo un ministero di grazia, mentre ricordiamo ancora con rendimento di grazie l’arcivescovo Anastasios). L’igumeno Pantelejmon è in rappresentanza della Chiesa di Polonia e dell’arcivescovo Sawa.

In un convegno dedicato ad Antonio il Grande non poteva mancare una rappresentanza della Chiesa copta. Il papa e patriarca di Alessandria, Tawadros, ha incaricato di rappresentarlo p. Kyrillos el-Makari; e insieme a lui salutiamo i padri Joseph Stéphanos e Abraham Shenouda. Per la Chiesa apostolica armena del catholicossato di Etchmiazin, anch’essa fedele ai nostri convegni, quest’anno abbiamo la gioia di accogliere p. Avetisyan, responsabile del dipartimento delle relazioni intraecclesiali e p. Ghevond, decano del seminario armeno di San Pietroburgo. Accogliamo anche p. Goitom Yainu Sequar, che rappresenta la Chiesa ortodossa Etiopica Tewahedo e il suo patriarca abuna Matthias.

Ci rallegriamo per la presenza di vari membri delle Chiese d’occidente: della Chiesa Luterana di Svezia; della Chiesa Anglicana, in particolare il vescovo Michael Augustin, insieme ad altri amici tra cui il fedele canonico Hugh Wybrew; della Chiesa cattolica, in particoalre saluto il vescovo Giorgio Demetrio Gallaro, già eparca di Piana degli Albanesi, il vescovo Derio Olivero, di Pinerolo, presidente della Commissione episcopale per l'ecumenismo e il dialogo della Conferenza Episcopale Italiana, e p. Jaromír, in rappresentanza del Dicastero per la promozione dell’unità dei cristiani.

A queste aggiungo anche le Chiese cui appartengono i membri della nostra comunità: le Chiese riformate di Svizzera e di Francia, la Chiesa ortodossa ucraina, la Chiesa Assira d’Oriente.

Particolarmente ricca e varia è la presenza di monache e monaci e ce ne rallegriamo profondamente. Vengono da: Grecia (Asomaton Petraki e Panagia ton Vryoulon ad Atene); Romania (Copou e SS Pietro e Paolo a Iași); Serbia (Kovilj); Russia (Sretenskiy a Mosca); Egitto (Deir Abou Maqar); Germania (San Spiridione); Svizzera (Eremo S. Croce); Regno Unito (Community of the Resurrection di Mirfield); Spagna (Monserrat); Francia (Comunità di Taizé e Comunità di Bethléem); Belgio (Monastero di Chevetogne) ; Italia (Monastero del Pantrokrator di Arona; Abbazia di Praglia; Monastero di Vitorchiano; Monastero di Dumenza; Monastero di Germagno; Clarisse di Sant'Agata Feltria; Fratelli Contemplativi di Gesù; Eremo di Montecorona).

Questo elenco… resta solo un elenco, al quale peraltro mancano tanti nomi! In questi giorni spero che avremo modo di conoscerci meglio e approfondire la nostra fraternità. E parlando di fraternità e di amicizia, vorrei ricordare uno stimato teologo e caro amico, frequentatore dei nostri convegni, il prof. Chysostomos Stamulis, che qualche settimana fa è tornato alla casa del Padre, lasciandoci sgomenti e nella tristezza. Di lui vogliamo ricordare soprattutto il sorriso e il cristianesimo aperto e gioioso che ha sempre predicato e insegnato.

Infine non possiamo non fare memoria delle tragedie che si consumano intorno a noi, soprattutto in Ucraina e in Medio Oriente, specialmente a Gaza. Lo facciamo ricordando e portando tutto nella preghiera. Voglio pensare che il nostro stare insieme in questi giorni sia un controcanto rispetto all’abominio di tali tragedie. Un seme piccolo, ma non insignificante, perché ogni seme di fraternità gettato a terra, prima o poi porta il suo frutto, che è a beneficio dell’umanità intera. Un controcanto “da folli”... ma è ancora Antonio il Grande che, in uno dei suoi detti più taglienti, avverte: "Verrà un tempo in cui gli uomini impazziranno, e quando vedranno uno che non è pazzo, lo assaliranno dicendogli: 'Sei pazzo!', per il solo fatto che non è come loro" (Detti 25).

Proprio il nostro, è il tempo in cui continuare a sperare, a seminare pensieri di pace e di fraternità, a costo di sembrare pazzi… solo dei poveri illusi!