Aut aut: o Dio o la ricchezza!
8 novembre 2025
La nostra pericope, cioè la porzione del Vangelo per oggi, è il seguito del la parabola di quell’amministratore, forse disonesto ma di certo scaltro, che Gesù porta alla nostra ammirazione.
La nostra pericope, cioè la porzione del Vangelo per oggi, è il seguito del la parabola di quell’amministratore, forse disonesto ma di certo scaltro, che Gesù porta alla nostra ammirazione.
l capitolo 16 del suo Vangelo l’evangelista Luca raggruppa alcuni insegnamenti di Gesù sull’uso del denaro e dei beni terreni: un tema che dovrebbe interrogare sempre noi cristiani. E il brano di oggi che apre questo capitolo ci presenta una parabola che ci lascia perplessi, scardina il nostro modo quieto, lineare, di pensare, di ben-pensare.
Nel vangelo di oggi leggiamo “una parabola” che Gesù rivolge a farisei e scribi di cui ha sentito la “mormorazione” perché vedono che “accoglie tutti i pubblicani e peccatori” e addirittura mangia con loro (cf. vv. 1-2). Il mormorare è una contestazione espressa a denti stretti, un borbottio interiore che Gesù coglie e a cui vuole rimediare rivolgendo loro la parola.
Gesù pronuncia queste parole perché – dice Luca – “una folla numerosa andava con lui”. Gesù non temeva né fuggiva le folle, anzi nei loro confronti manifestava sempre un atteggiamento di benevola accoglienza. E tuttavia il suo sguardo cerca sempre il “faccia a faccia” dell’incontro personale con chiunque voglia seguirlo (cf. Mc 10,21). È significativo che si dica che Gesù si volta: “voltatosi, disse”, un’espressione tipicamente lucana che ritroviamo altrove. È il volto di Gesù, quello “risolutamente diretto verso Gerusalemme” (9,51) a voltarsi.
“Beato chi prenderà cibo nel regno di Dio!”, esclama uno dei commensali che ha ascoltato le parole di Gesù che hanno ricordato che quando si offre un pasto occorre invitare “i poveri, chi è provato dalla sofferenza, gli zoppi e i ciechi”. Nella parabola raccontata in seguito ritorna questo elenco di miseri che il padrone di casa manda a chiamare.
Poche parole quelle di Gesù nel vangelo odierno ma, va detto, parole scomode ancora per noi oggi: chi veramente le mette in pratica? Chi è capace di aprire le porte della propria casa agli esclusi, agli emarginati della nostra società?
Il termine che siamo soliti tradurre con “beati” è quello usato già nella versione greca dei Salmi per rendere l’espressione ebraica indicante una rettitudine di cammino, un’esortazione: “orsù, in cammino!” o, un po’ più liberamente, “coraggio!”. “Beati”, quindi, non sarebbe tanto un elogio, quanto piuttosto un incoraggiamento, appunto, a che non venga meno il cuore dei destinatari di queste parole così intessute del senso più profondo della nostra vita e delle sue vicissitudini.
“Sabato” (14,1.3.5) per Gesù è il nome della “cura-guarigione”, della vita che ritorna viva. Oggi “in casa di un capo dei farisei” mettendo a confronto “il sabato” e “i dottori della Legge” Gesù domanda loro: “è permesso o no curare di sabato?” (14,3).
Parlare a nuora perché suocera intenda. Il detto della sapienza popolare si attaglia alla perfezione a questo incontro tra Gesù e alcuni farisei. “Vattene via di qui, perché Erode ti vuole uccidere” – gli dicono, dissimulando la loro brama di toglierlo di mezzo, in un modo o nell’altro, mentre il re di Galilea non desiderava altro che vederlo, ammirare all’opera quel saltimbanco dei miracoli (cf. Lc 23,8). Sta al gioco Gesù, e fingendo di rivolgersi a “quella volpe” risponde per le rime a quei volponi. Con finto altruismo, lo invitano ad andarsene ora per salvarsi la vita? Ebbene, lui svela loro un altro senso del tempo, dell’andare e della vita stessa.
L’evangelista Luca ci ricorda che Gesù si sta dirigendo verso Gerusalemme. La città santa sarà il luogo della sua passione, morte e resurrezione, ma anche il luogo in cui il suo evangelo raggiungerà, in cerchi concentrici, la Giudea, la Samaria e i confini della terra (cf. At 1,8). Gerusalemme rappresenta dunque un compimento – il compimento dell’amore – e un cominciamento radicale, un nuovo inizio per l’umanità intera.
L’elezione dei Dodici è fatta precedere da un particolare su cui riponiamo la nostra attenzione: “In quei giorni egli se ne andò sul monte a pregare e passò tutta la notte pregando Dio” (Lc 6,12). Gesù, l’uomo della compagnia, passa di villaggio in villaggio, le folle lo seguono; l’uomo della cerchia ristretta, le sue soste di casa in casa, è altresì l’uomo della solitudine, del ritirarsi in luoghi appartati, solitari.
Questa pagina del Vangelo nasce dall’incontro tra due quotidianità: quella di Gesù, che stando al testo trascorreva i giorni di sabato, dedicati al riposo e alla lode del Dio creatore, insegnando ora in questa ora in quella sinagoga, e quella di una donna anonima, che da lungo tempo era costretta a una vita ripiegata che le impediva di ricambiare gli sguardi delle altre persone, così come di alzare i suoi occhi verso il cielo.
Gesù non era indifferente all’idea che gli altri si facevano di lui (cf. Lc 9,18.20). Come noi? Non indifferenti agli altri, più o meno preoccupati dell’immagine che offriamo, in ricerca di una giusta libertà da attese e proiezioni…
«Il volto, l’aspetto della terra e del cielo» (Lc 12,56) sappiamo riconoscerlo e valutarlo, riusciamo a fare previsioni meteorologiche, a intuire l’arrivo della pioggia dal moto delle nuvole o il caldo portato dal soffio dello scirocco, a prospettare scenari. Però non siamo in grado di ponderare il senso profondo del kairos che viviamo, del tempo qualitativo e irripetibile che ci è dato di abitare.
Quel Gesù per il quale al momento della nascita gli angeli hanno cantato: “Pace in terra agli uomini che egli ama” (Lc 2,14), lo stesso Gesù che annuncia la pace a coloro che guarisce (cf. Lc 7,50), oggi ci mette di fronte ad affermazioni che dicono il contrario: “Pensate che sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione” (v. 51).