L’amministratore disonesto, ovvero l’arte di costruire relazioni
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4 giugno 2024
Lc 16,1-9 (Lezionario di Bose)
In quel tempo Gesù 1 diceva anche ai discepoli: «Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. 2Lo chiamò e gli disse: «Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare». 3L'amministratore disse tra sé: «Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l'amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. 4So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall'amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua». 5Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: «Tu quanto devi al mio padrone?». 6Quello rispose: «Cento barili d'olio». Gli disse: «Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta». 7Poi disse a un altro: «Tu quanto devi?». Rispose: «Cento misure di grano». Gli disse: «Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta». 8Il padrone lodò quell'amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce. 9Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne.
Se ci limitiamo a leggere questa parabola solo da un punto di vista giuridico e umano potrebbe sembrare che Gesù stia lodando un comportamento disonesto: l’appropriazione indebita e falso in bilancio volti ad ottenere favori personali. Ma siamo chiamati a superare “la giustizia di scribi e farisei” per cercare, al di là della interpretazione giuridica, il senso profondo del racconto.
La parabola segue quella del padre Misericordioso ed entrambe sono proprie del vangelo secondo Luca. Anche il racconto dei due figli inizia con un regolamento di conti, il minore pretende dal padre la sua parte di eredità e successivamente sperpera i suoi averi, la stessa accusa mossa al nostro amministratore, e, nell’indigenza, ragiona su cosa fare per essere accolto nella casa del padre.
Ma il figlio minore continua a essere centrato su sé stesso: io muoio di fame, io non sono degno, io ho peccato, per questo pur facendo ritorno non ritorna in verità dal Padre. L’amministratore invece si apre all’altro, cerca una relazione di accoglienza: tu quanto devi, tu siediti e scrivi.
La domanda che quest’uomo si pone: “Che cosa farò?” è la stessa che si pone il ricco stolto di fronte all’abbondanza del raccolto (Lc 12,17). Ma anche l’uomo ricco è interamente centrato su sé stesso e su tutti i suoi beni, si preoccupa solo di chiudere tutto in un magazzino e della sua vita di godimento egoistico, tanto che il Signore gli chiederà: ciò che hai accumulato per chi sarà?
Quali sono allora le differenze tra il nostro amministratore, i figli della parabola e il ricco stolto? L’amministratore riconosce con onestà la sua miseria e la sua povertà: (“zappare non ho la forza, mendicare mi vergogno”), ma comprende anche che solo nella relazione con l’altro può andare avanti, rialzarsi, riprendere il cammino. Il fondamento di questa relazione è la remissione del debito, la misericordia. Questo non può non rimandarci a un’altra parabola, quella del servo spietato che pur avendo ricevuto un’incredibile misericordia non sa esercitarla verso il suo compagno.
La remissione del debito è il centro del nostro racconto, a ciascuno in misura diversa come i talenti affidati ai servi secondo le capacità di ciascuno.
Questo amministratore non attinge ai suoi averi, non mette sé stesso al centro, ma con libertà, con audacia, con scaltrezza, con creatività prende dal denaro del suo padrone per ridurre il debito di altri. Al contrario il figlio minore pretende la sua eredità, mentre il maggiore non sa neanche quale sia la sua appartenenza. Quante di queste caratteristiche contraddistinguono il nostro annuncio del vangelo?
Il perdono e la misericordia sono il fondamento della relazione: anche quando ci sembra di non poter perdonare, possiamo sempre attingere alla misericordia del Padre, allo Spirito santo che senza misura ci viene donato (cf. Gv 3,34), perché nella sua casa che è “casa di preghiera per tutte le genti” (Is 56,7) c’è posto per tutti e la sua casa siamo noi se conserviamo la libertà e la speranza di cui ci vantiamo (cf. Eb 3,6).
Gesù ci sta dicendo che dobbiamo usare la scaltrezza, la libertà, le nostre capacità non per arricchirci a scapito degli altri o per vivere una vita di godimento incuranti di chi ci sta accanto come il ricco epulone, ma per costruire relazioni per essere accolti e accogliere a nostra volta, in quella casa che è la misericordia di Dio e il suo perdono. Noi possiamo attraversare le nostre sconfitte, i fallimenti, possiamo rialzarci a camminare insieme se mettiamo le nostre capacità a servizio della relazione con l’altro e dell’accoglienza, non si tratta solo di accogliere l’altro, ma ancora prima di lasciarci accogliere dall’altro.
fratel Nimal