Matteo, o la gioia della misericordia
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21 settembre 2024
Mt 9,9-13
In quel tempo 9Gesù vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi». Ed egli si alzò e lo seguì. 10Mentre sedeva a tavola nella casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e se ne stavano a tavola con Gesù e con i suoi discepoli. 11Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: «Come mai il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?». 12Udito questo, disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. 13Andate a imparare che cosa vuol dire: Misericordia io voglio e non sacrifici. Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori».
Un noto detto apre, o quasi, la collezione dei Detti dei rabbini chiamata Pirqè Avot: “Shim‘on il giusto era uno degli ultimi membri della grande assemblea. Egli soleva dire: Su tre cose il mondo sta: sulla Torà, sul culto e sulle opere di misericordia” (Pirqè Avot I,2).
È una delle convinzioni tipiche del movimento farisaico, che ha permesso al giudaismo di sopravvivere alla distruzione del tempio di Gerusalemme, nel 70 d.C., da parte dell’esercito romano, appunto perché ai sacrifici – fondamento del culto nel tempio – sostituiva, sotto l’influenza del profeta Osea, le opere di misericordia.
Osea? Sì, proprio lui, perché dalla sua predicazione proviene la parola: “Misericordia io voglio e non sacrificio”, che Gesù cita qui e che ribadirà poco più avanti in Mt 12,7 (cf. Osea 6,6).
Allora non è priva di ironia la risposta di Gesù ai farisei: mentre essi gli rimproverano di mescolarsi a persone impure, o perlomeno tipicamente peccatrici, mangiando con loro e scegliendo addirittura uno di loro, Matteo, come discepolo, la risposta di Gesù li rimanda al loro “specifico” farisaico: misericordia, non sacrifici e ciò che è associato ad essi, come appunto la purezza. Ora, per chi è la misericordia, se non per quelli che ne hanno il più bisogno: i pubblicani e i peccatori?
Con il suo atteggiamento, Gesù non fa altro che mettere in pratica l’insegnamento dei suoi contestatori, come spiegherà più tardi ai suoi discepoli quando dirà loro: “Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno” (Mt 23,2-3).
Matteo, di cui oggi celebriamo la memoria, è così il più puro prodotto del vero farisaismo. Non di quello che troppo spesso immaginiamo, ma di quello descritto dalla raccolta di detti di cui parlavo all’inizio. Nel quadro della sinagoga di Nazareth infatti, Gesù è cresciuto proprio nell’ambiente religioso farisaico, il cui insegnamento specifico divenne il cuore della sua vita e della sua predicazione.
Ma com’è possibile dire di Matteo che è espressione pura del farisaismo? Ce lo dice appunto il banchetto che celebra prima di lasciare il banco delle imposte: banchetta con i suoi colleghi, assemblea di peccatori che scoprono la gioia del perdono offerto da Gesù che ha chiamato Matteo dall’inferno del peccato alla gioia della sequela di colui che è la salvezza, di colui che fa entrare nel regno di Dio.
Potessimo capire anche noi che, se siamo in vita e possiamo ancora semplicemente respirare, lo dobbiamo solo alla misericordia infinita di Dio che ci ha creati perché potessimo vivere. E se questa è la nostra convinzione, essa determina uno stile di vita, appunto la sequela di Cristo, che è un modo di relazionarci con il Cristo e con gli altri. Il Cristo non è più soltanto il Signore, ma l’amico che fa entrare nella festa. E gli altri non sono più fondamentalmente “altri”, ma, come noi, amati all’eccesso dal Signore e coperti dalla sua compassione.
fratel Daniel