La pandemia: un esame di realtà

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Lettera agli amici Qiqajon di Bose n. 69 - Avvento 2020

Cari amici e amiche, cari ospiti e quanti ci seguite da lontano,
come ogni anno l’Avvento è un tempo di vigilante consapevolezza e di fiduciosa speranza, un’occasione di rilettura del tempo trascorso e di apertura dello sguardo e del cuore alla venuta del Signore nelle nostre vite e alla fine dei giorni. Se la nostra comunità nell’anno trascorso ha conosciuto e sta vivendo una prova particolare, essa ha anche condiviso con tutti voi, e con milioni di altri uomini e donne nel mondo, la tribolazione costituita dalla pandemia. Non vi è nessuno che non sia stato colpito in modo più o meno grave, direttamente o indirettamente, dal virus. Anche la nostra comunità lo è stata: mentre scriviamo vi sono alcuni suoi membri isolati perché positivi al Covid-19. Le conseguenze si sono fatte e si faranno sentire sempre di più non solo sul piano della salute, ma anche a livello lavorativo, economico, relazionale, sociale: vediamo reso precario il nostro presente e incerto il futuro, non sappiamo a cosa e dove ci porterà questa pandemia.

Ma se proprio dell’essere umano è interrogarsi su se stesso e sul proprio mondo, allora tutto questo è comprensibile e anche noi vogliamo osare una semplice, elementare riflessione alla luce della parola di Dio e cogliendo come segno dei tempi quanto già ora, al di là di ciò che potrà avvenire in futuro, questo evento ci ha detto. I francesi, giocando con la parola maladie, “malattia”, e scomponendola, ne derivano questa frase: le mal a dit, “il male ha detto”. Cosa dice di noi e a noi il male della pandemia? Per prima cosa ci dice una parola che riguarda tutti, che vale per il senso del vivere, dell’abitare il mondo, dell’essere umani, ben più e ben prima che dell’essere credenti e cristiani. E solo ascoltando questa parola noi possiamo lasciarci interpellare anche come cristiani e appartenenti a una chiesa. Poiché, infatti, l’autenticità della speranza cristiana – che nasce nel tempo sospeso dell’alba di un primo giorno della settimana davanti a una tomba vuota – consiste nel saper toccare il tragico delle esistenze, la nostra riflessione vuole inserirsi nel flusso continuo del pensare la pandemia che accomuna uomini e donne di ogni credo e orientamento di pensiero e che cerca di interpretare l’evento, di coglierne il messaggio per costruire modelli di vita più sensati e una speranza autentica. Speranza che non sarà mai l’ottimismo superficiale dell’“andrà tutto bene”, ma la responsabilità onerosa che impegna giorno per giorno. Anzitutto guidandoci a una lettura critica del nostro modo di vivere.

La pandemia ci sconcerta perché si permette di ricordarci che niente è scontato, e men che meno dovuto, nel nostro vivere. Nemmeno il respirare. Nemmeno il darsi la mano o l’abbracciarsi quando ci si incontra. Nemmeno il camminare e il fare una passeggiata all’aperto. Nemmeno il condividere la tavola con gli amici. Dunque nemmeno la gestione elementare dei gesti quotidiani del nostro vivere. La pandemia contesta, silenziosamente, la nostra presunzione, smaschera le nostre illusioni, mette a nudo le nostre pretese.

La pandemia rappresenta una grande lezione dei limiti. Vengono ristretti enormemente gli orizzonti dell’uomo globale: strade sbarrate, viaggi preclusi, restare tra quattro mura per giorni e giorni, non varcare la soglia della propria casa, quasi che gli stipiti domestici fossero divenuti delle novelle colonne d’Ercole. Il mondo ridotto alle dimensioni domestiche. L’emergenza sanitaria impone misure limitanti ben più radicali del “limite del sabato”, il techum shabbat, ovverosia la limitazione di movimento prevista nell’ebraismo per il giorno di sabato, a ricordare che non l’agire e l’agitarsi dell’uomo manda avanti il mondo. Ci è richiesta la difficile arte di dirci dei no, di porci dei limiti e di attenerci ad essi, di non fare, di non andare, di non incontrare. Ci è imposto – paradossalmente – di esercitare l’umile mitezza, ovvero, biblicamente, l’arte di essere più forti della nostra forza autolimitandoci. Anzi, siamo ricondotti al limite che è il corpo, che deve imparare una modalità di rapportarsi con lo spazio circostante estranea alla nostra cultura mediterranea. Eccoci di fronte, improvvisamente, alla verità elementare del nostro corpo e alla preziosità del nostro tempo che ora possiamo cogliere, sentire, non solo veder fuggire. Ovvero, i due limiti basilari e fondanti della nostra condizione umana: lo spazio e il tempo. La sfida del limite, che la pandemia ci pone di fronte, è questa: sapremo abitare il corpo e il tempo?

La pandemia è una memoria mortis. Che ha ricordato e ricorda ancora, anche con brutalità, che non solo la fragilità e la vulnerabilità sono parti costitutive della vita e che dunque compito umano è quello di integrarle nel vivere, ma anche la morte. Anzi, la vita non è senza la morte e solo ciò che vive ha la capacità di morire. E questo è vero a livello biologico come a livello spirituale: solo quella morte vitale e datrice di vita che è l’amore può dar senso e sapore alla vita mortale. Il Covid-19 ha così posto in crisi la nostra ricerca di potenza e di invulnerabilità, il nostro delirio di onnipotenza, la nostra negazione della fragilità e la nostra rimozione della morte. E ci ha obbligato a porci nuovamente di fronte all’orizzonte della morte per recuperare quella sapienza che da sempre nasce dal pensare la vita tenendo presente la morte. Incerta omnia, sola mors certa, sentenziava lapidariamente Agostino. E questa unica certezza del nostro vivere, che paradossalmente rende tutto incerto e caduco, è la base per fondare la nostra sapienza, l’eticità e la sensatezza della nostra vita. E questo vale per tutti gli umani, al di qua di ogni loro credo o pensiero.

La pandemia ci ha mostrato che noi esistiamo in legame con gli altri, che abbiamo bisogno gli uni degli altri. E ha contestato le tendenze di radicalismo individualista che ci abitano. Noi siamo relazione: questa è un’altra lezione, tanto semplice ed elementare, quanto spesso disattesa e ignorata, nel nostro vivere quotidiano. Mentre ci obbliga a distanziarci, mentre ci induce a sentire l’altro come potenziale minaccia, ma anche a percepire noi stessi come potenziali portatori di contagio, la pandemia ci istruisce sulla essenzialità di quelle semplici relazioni quotidiane che pensavamo di poter dare per scontate e invece non lo sono. Ma proprio mentre ci chiede di osservare il distanziamento, di mettere la mascherina, ci sprona ad assumere la responsabilità verso altri. Questa lezione riguarda la nostra responsabilità personale. La vita mia e degli altri, soprattutto dei più fragili, dipende anche dai miei comportamenti.

A una società che chiude le frontiere a migranti e stranieri, che mette in atto politiche di respingimento, il virus che senza problemi passa frontiere e confini ha mostrato la stupidità e la cattiveria di politiche immunitarie che perseguono la sicurezza in modo ossessivo e si scoprono poi radicalmente insicure. Anche l’insicurezza va integrata nel vivere. Così come l’ignoranza. Contro l’arroganza della conoscenza, il virus ci ha svelato la profondità della nostra ignoranza portando anche gli “esperti” a brancolare avanzando a tentoni. L’incertezza è principio che va integrato nelle nostre conoscenze e nelle nostre modalità di conoscenza. Per giungere a una conoscenza umile.

Insomma, la pandemia si sta rivelando un esame di realtà che mentre ci aiuta a dar nome a tendenze distruttive e abitudini malsane del nostro vivere personale, sociale e politico, ci porta anche a individuare piste da percorrere per una vita più a misura d’uomo, caratterizzata da un’ecologia integrale, o forse, potremmo dire, radicale, che abbracci cioè tanto la dimensione ambientale quanto quella sociale, ma pure mentale, psichica e spirituale.

Queste osservazioni, che raggiungono lo spirito che attraversa tanto la Laudato si’ quanto la Fratelli tutti di papa Francesco, ci paiono una base umana elementare su cui fondare la nostra pratica cristiana, indirizzandola verso quella essenzialità che è caratteristica tipica di una vera riforma. La quale è sempre un movimento di spogliazione, una ablatio, un atto di distacco e di semplificazione.
Cari amici e ospiti, cari fratelli e sorelle in Cristo, noi stiamo vivendo quel tempo dell’Avvento che ci dispone ad attendere la venuta del Signore. E il Signore verrà nella notte: “alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino” (Mc 13,35). Una notte che è simbolo di una condizione storica ed esistenziale oscura, tenebrosa, faticosa, densa di tribolazioni. Nostro compito è quello di non assecondarla chiudendo gli occhi, ma di aprirli vegliando e restando lucidi. Che la notte che viviamo apra i nostri occhi, invece di chiuderli: leviamo lo sguardo al Signore che viene, perché in lui la nostra liberazione è vicina.

Il priore e i fratelli e le sorelle di Bose
Bose, 29 novembre 2020 I domenica di Avvento

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