Uno sguardo decentrato da sé

Photo by Pawel Czerwinski on Unsplash
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Fratelli, sorelle,

la nostra Regola a più riprese e in maniere diversificate mette in guardia contro l’individualismo, il fare quel che si vuole in comunità, la non obbedienza all’oggettività comunitaria, cioè ai ritmi, agli orari, alle liturgie, ai momenti comuni, agli impegni e alle attività che la comunità nel suo insieme vive e assume, il perseguire un proprio progetto personale, insomma, l’egoismo. Ricordiamo soltanto l’espressione:

L’individualismo disgrega e arresta la vita della comunità” (RBo 26).

Basta molto poco, bastano pochissimi in una comunità – così ci insegnano le esperienze di tante vicende monastiche – per boicottarne e rallentarne la vita. L’individualismo, la singolarità, l’imporre il proprio volere è una forma di prepotenza, di potere che si usa contro il resto della comunità. Come lo è il non dare ascolto e il non considerare se non chi si vuole ascoltare o coloro a cui si è legati, e perfino in un rapporto di dipendenza, anche se non hanno funzioni di governo istituzionali. Inoltre la Regola esorta a “non vivere per te stesso” (RBo 6), ammonisce che chi è entrato in comunità non lo ha fatto “per se stesso” (RBo 41), ricorda a ciascuno che “tu non appartieni più a te stesso” (RBo 10), che compito di ognuno è “ascoltare Dio, non te stesso” (RBo 37). In particolare una pregnante espressione che troviamo nel paragrafo 34 dice che la ricerca del Signore, compito primario di ogni monaco, è resa possibile dall’essere “liberato da sguardi su te stesso” (RBo 34).

Sì, un grave rischio che paralizza la vita spirituale è quello di chiudersi in sé, di avere come centro e fine del proprio pensare e agire solo se stessi. Di non avere occhi che per se stessi. E questo può avvenire in molte forme. L’avere come orizzonte, come oggetto di interesse e di discorso solo se stessi o la propria piccola cerchia di persone con cui si è in relazione, o al massimo la comunità, quando esiste una marea di problemi enormi dell’umanità oggi, a cominciare dalle persone che ci visitano, dagli ospiti che vengono da noi e che cercano luce, senso, o almeno un momento di respiro da una quotidianità pesante e spesso invivibile. Inoltre, il cercare la propria realizzazione o intellettuale o sul piano lavorativo. O ancora, il restare chiusi nella propria sofferenza, il perpetuare il lamento sulla propria condizione di vittima, vera o presunta che sia, il compiacersi perfino in questo atteggiamento di autoreferenzialità vittimistica. L’attitudine a muoversi in comunità per automatismi, con etichette con cui bolliamo l’uno e l’altra e ripetiamo pigramente gli stereotipi che confondiamo con verità. Il continuare ad agire e a muoversi in comunità senza fare riferimento agli altri, come se gli altri non esistessero. Il non aderire alla realtà, e poi il sottrarsi con le scuse più svariate, il che significa con menzogne, alle incombenze comunitarie se queste non sono di nostro gradimento o ci scomodano. Il lavorare o il non lavorare, il fare o non fare servizi, il porre se stessi come regola.

Qui noi dovremmo ricordare che la nostra vita di per sé rischia di essere una vita di privilegiati, in cui la distribuzione degli incarichi fa sì che molte mansioni concrete, quotidiane, pratiche, economiche siano affidate a uno, e altri non le tocchino mai. Cosa normale in una vita comunitaria in cui occorre una certa, diciamo così, specializzazione, almeno per certi lavori e incombenze, ma che far nascere privilegi piccoli o grandi, in cui uno si sente esentato da ciò che nella vita normale di tante persone che vivono nel mondo è peso e dovere quotidiano. La suddivisione dei servizi in comunità vuole sopperire proprio a questo. Il rischio del restare con lo sguardo fisso su di sé porta poi a perdere l’oggettività dello sguardo: si esagerano le proporzioni, si ingigantiscono problemi non così gravi, se ne rimpiccioliscono altri o proprio non li si vede. Soprattutto si perde la capacità di lucidità e di critica verso se stessi. Si rischia di vedere l’albero e perdere di vista la foresta, l’insieme delle cose.

Lo sguardo è centrato su di sé anche quando si resta ostinatamente legati a proprie idee, visioni, progetti, e le si vuole imporre agli altri, o quando si pensa che ciò che pensiamo o riteniamo noi sia sempre e comunque migliore di ciò che pensano gli altri. Di fronte a questo occorre positivamente accordare sé agli altri: forse abbiamo fede in Dio, ma la pratica quotidiana del nostro vivere a volte fa dubitare che noi crediamo davvero all’esistenza degli altri. Vederli, infatti, significa fare loro spazio, accordarsi con loro, e dico accordarsi nel senso in cui si dice che si devono accordare le corde di uno strumento musicale perché il suono sia armonico. Il nostro celibato diviene fecondo allora, quando non è più ripiegato su di sé ma aperto con fiducia agli altri.

Perciò, fratelli e sorelle, siamo sobri e vigilanti perché il nostro Avversario, il Divisore, come leone ruggente si aggira cercando una preda da divorare. Resistiamogli saldi nella fede e liberati da sguardi centrati su noi stessi. E tu, Signore, abbi tanta pietà di noi.

fratel Luciano