Per un'antropologia cristiana della pace

XXII Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa
BEATI I PACIFICI
Bose, 3-6 settembre 2014
in collaborazione con le Chiese Ortodosse

Ingresso di Geserusalemme Icona fine XVI sec Museo di Lhabavsk

PER UNA ANTROPOLOGIA CRISTIANA DELLA PACE

di Aristotle Papanikolaou

Nelle tradizioni ortodossa e cattolica, un’antropologia della pace è definita, molto semplicemente come théosis, deificazione o, come preferisco dire, quale comunione divino-umana. Tale comprensione della pace come théosis, tuttavia, può essere facilmente fraintesa nel senso di un’acquisizione di poteri fino a considerarsi una sorta di Zeus, poteri che consentirebbero di trascendere e trasformare i dissesti provocati dalla nostra finitezza. Anche tra i cristiani ortodossi la nozione di théosis è spesso applicata al monaco che ha poteri di divinazione o di guarigione, dando ancora una volta l’impressione che l’incarnazione della divina presenza sia manifestata soltanto in alcune condizioni di poteri sovraumani.

Se tuttavia ricordiamo il nome fondamentale di Dio per i cristiani, cioè che Dio è amore – cosa che tutti i cristiani condividono – allora la théosis stessa deve essere vista come capacità di amare come Dio ama, vedendo tutte le creature, anche quelle che sembrano meno amabili, così come Dio le vede. È questa la sfida del più grande comandamento: amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente e amare il prossimo come se stesso (cf. Mt 22,37-39). Quando è compresa nei termini del più grande comandamento, la théosis diventa più ordinaria, ironicamente più terrena, più evidente nelle banali, quotidiane attività della vita. Il più grande comandamento, comunque, è un paradosso: ci viene comandato di amare quando l’amore stesso non può prendere avvio dalla volontà. Non si può sicuramente volere che qualcuno ami uno che odia, ma soltanto far osservare che non ama come dovrebbe.

ARISTOTLE PAPANIKOLAOU, New YorkI grandi spirituali delle tradizioni ortodosse e cattoliche comprendono la natura paradossale di questo comandamento; essi sanno che uno non può semplicemente voler amare come vuole non rubare o non dire menzogne. Nella misura in cui l’amore implica la volontà, l’amore stesso è anche affettivo, cioè coinvolge le nostre emozioni e i nostri desideri. In questo senso l’amore abbraccia la persona umana nella sua interezza, anima e corpo. Ciò che questi grandi spirituali capiscono inoltre è che l’amore è un apprendistato che richiede un esercizio per plasmare le nostre emozioni e i nostri desideri, e in questo modo, accresce la capacità della volontà di amare. L’esercizio comporta che si comprenda ciò che impedisce l’amore, ciò che fa entrare nella via dell’amare come ama Dio.

Uno degli ostacoli sulla via dell’amore identificato dagli spirituali è l’orgoglio. Gli spirituali comprendono bene che, a causa della nostra finitezza, gli esseri umani sono afflitti dal turbamento della paura. Siamo davvero terrorizzati dalla morte, ma questa paura della morte maschera un’altra paura che io credo più fondamentale ed è ciò che fonda il nostro orgoglio, è la paura di non avere una qualche importanza nel mondo. Il metropolita Ioannis Zizioulas esprime questo concetto con maggior eleganza come il desiderio di unicità e singolarità. La nostra paura di non aver importanza nel mondo ci porta ad affermare noi stessi in una modalità “divina”. Ciò che appare come amore di sé, orgoglio, in realtà è una forma di disprezzo di sé che quest’apparente amore di sé cerca di mascherare. E a causa di questo disprezzo di sé come amore di sé, cerchiamo di distruggere o negare chiunque o qualunque cosa minacci la nostra identità, minacci ciò che percepiamo come un aiuto a sentirci importanti. Questo tentativo di distruggere o negare l’altro che minaccia la nostra importanza si realizza nel confronto faccia a faccia con i genitori, i figli, gli amici, ma specialmente con lo straniero e il nemico. Lo vediamo anche a livello di gruppi; gli ortodossi stessi sono ben noti per quest’autoidentificazione negativa contro l’altro, specialmente nei confronti del cosiddetto “occidente”, la cui ultima forma è il tentativo di negare o distruggere il cosiddetto occidente ateo, antireligioso, liberale contrapponendogli i valori tradizionali e conservatori dell’ortodossia. Gli spirituali sanno bene che queste forme di affermazione dell’io, come forme di avversione di sé mascherate come amore di sé, sono radicate in sentimenti di paura, che alla fine conducono alla collera. Il sentimento della collera necessita di un oggetto e l’oggetto della collera di solito non è mai ciò per cui si prova collera; in verità la collera conduce all’oggettivazione, cosa che rende più facile trattare l’altro come un oggetto, non diverso da una pietra, rende facile distruggerlo con il martello di proiezioni arbitrarie. Lo si può vedere specialmente nei social media quando si proiettano in un semplice messaggio ogni sorta di significati che vengono impiegati per giustificare discorsi carichi di odio o di diffamazione o quando i teppisti si sentono autorizzati a far del male a qualcuno, normalmente non si chiedono se si sono comportati rettamente nei loro confronti. La sfida per imparare ad amare è apprendere a coltivare le nostre emozioni, i nostri desideri e, quindi, la nostra volontà in modo tale che avvertiamo di aver minor paura e collera nei confronti dei nostri genitori, figli, fratelli e sorelle, amici e, ancor più provocatoriamente, nei confronti dello straniero e del nemico.

Ci sono, comunque, altre condizioni nella vita che rendono difficile l’amore, che evocano sentimenti di paura e di collera ma non sono necessariamente sollecitati dall’avversione verso di sé come amore di sé. Una di tali condizioni è la violenza. La violenza che si abbatte su di noi o che noi commettiamo manda in frantumi un’antropologia della pace poiché rende difficile l’amore. Vorrei illustrare come la violenza ottiene questo effetto considerando tre particolari casi di violenza, due dei quali si riferiscono alla guerra e uno dei quali si riferisce a situazioni di povertà. Prima però vorrei definire un’antropologia della pace nei termini delle virtù, esaminando il modo in cui Massimo il Confessore comprende la vita spirituale come un apprendistato ad amare. Dopo aver descritto particolari condizioni di violenza, vorrei concludere ricordando come la comprensione che Massimo ha delle virtù può tanto illuminare quanto aiutarci a ricostruire un’antropologia della pace come accresciuta capacità di amare come Dio ama nell’esperienza e attraverso l’esperienza della violenza.

La pace della virtù

Negli scritti di Massimo il Confessore la comunione con Dio, che è una concreta presenza del divino, è simultanea con l’acquisizione della virtù. La virtù è una concreta théosis o deificazione. Come dice Massimo stesso nella sua seconda lettera, che è indirizzata a Giovanni: “E la divina e beata carità, che da queste facoltà e per mezzo di esse [con “esse” indica le virtù] viene creata, unisce a Dio e fa apparire colui che ama Dio”1. Nei suoi scritti ascetici Massimo analizza in particolare un percorso che va dalla manifestazione delle virtù attraverso pratiche ascetiche fino alla manifestazione della virtù delle virtù: l’amore. Per Massimo l’essere umano è creato per imparare ad amare ed è in lotta costante contro ciò che indebolisce la capacità d’amore.

La virtù, per Massimo, non è una costruzione del carattere fine a se stessa; non è uno stato in cui uno esibisce le proprie virtù come distintivi onorifici; non è semplicemente la base per una giusta decisione morale che fa mostra di sé all’interno di un particolare contesto. L’acquisizione delle virtù è la condizione preliminare per attivare l’umana capacità d’amore. Come dice Massimo nei suoi Capitoli sulla carità: “Tutte le virtù collaborano con la mente verso l’ardente amore divino”2. Massimo non si limita alle sole quattro virtù cardinali ma, in accordo con la tradizione patristica orientale, offre un più ampio catalogo delle virtù e dei vizi che corrisponde alle tre parti dell’anima: sensibile, irascibile e razionale. La chiave ermeneutica per la complessa descrizione della relazione tra virtù e vizi nella vita interiore dell’essere umano e nell’agire umano è “progredire nell’amore di Dio”3, che viene misurato in definitiva dal modo in cui ci si relaziona con gli altri, specialmente con quelli verso i quali proviamo ostilità o collera4. Come spiega Massimo: “Chi scorge nel proprio cuore traccia di odio verso qualsiasi uomo, per un qualsiasi errore, è completamente estraneo all’amore di Dio, poiché l’amore di Dio non tollera affatto l’odio per un uomo”5.

Se le virtù sono una concreta deificazione, il presupposto per apprendere la virtù delle virtù, che è l’amore, allora il vizio danneggia la capacità d’amare. Massimo spiega che “scopo della provvidenza divina è unire mediante la retta fede e la carità spirituale quelli che sono stati variamente divisi dal male”6. Scrivendo innanzitutto a monaci, aggiunge che “il male che ti separa dal fratello” include “invidiare o essere invidiato, danneggiare o essere danneggiato, disprezzare o essere disprezzato e i pensieri che nascono dal sospetto”7. Massimo è inoltre accorto nel riconoscere che il vizio produce vizio, cioè che non è semplicemente l’atto del vizio che nuoce alla capacità di amare, ma è “l’essere stretto dalla morsa del vizio”. “Le cose che mettono fine alla carità sono queste: ad esempio disonore, danno, calunnia o riguardo alla fede o riguardo ai costumi; percosse, ferite o simili, e ciò sia che capiti a te sia a qualcuno dei tuoi parenti o amici”8. I vizi producono e sono tali emozioni affettive quali la collera, l’odio, la paura. Attraverso i suoi scritti, Massimo sta cercando sia di dare consigli sia di esortare a una forma di addestramento che può superare ciò che sono, in definitiva, emozioni corrosive, comunque giustificate.

È significativa anche l’analisi di Massimo riguardo al rapporto delle immagini con la coltura dei vizi e delle virtù. Secondo Massimo, ciò che spesso suscita e sviluppa un vizio sono immagini o pensieri che si presentano all’essere umano. Massimo spiega che “carità e padronanza di sé conservano la mente immune da passione rispetto alle cose e alle loro idee … tutta la lotta del monaco contro i demoni è per allontanare le passioni dalle idee”9. Massimo ammonisce anche: “Quando ricevi violenza da parte di qualcuno o sei oltraggiato in qualche cosa, allora guardati dai pensieri dell’ira, perché questi, separandoti dalla carità con la tristezza, non ti pongano nella regione dell’odio”10. In relazione alle immagini che suscitano il vizio, questa resistenza non consiste nel rimuovere l’immagine, ma nel disattivare il suo potere di evocare tali sentimenti di collera o di ostilità. Essere virtuoso è sperimentare dinanzi alle immagini emozioni e desideri che coltivano relazioni autentiche.

Nella misura in cui la virtù è connessa all’amore, le virtù costruiscono relazioni di intimità, fiducia, compassione, empatia, amicizia, condivisione, premura, umiltà e onestà; cose tutte quello che sono apparentemente minacciate dall’esperienza del vizio che distrugge le relazioni. Secondo Massimo, l’acquisizione delle virtù è un apprendimento che si realizza in e attraverso determinate pratiche che formano sia il corpo sia la vita interiore (l’anima) dell’essere umano; la virtù è una struttura dell’io quale apertura all’amore.

La disgregazione della violenza

Nella prossima parte della mia esposizione, vorrei suggerire che la comprensione di Massimo della virtù è particolarmente importante per illuminare l’esperienza umana della violenza concentrandomi sull’esperienza della guerra e della povertà.

Oggi negli USA è molto usuale ascoltare storie di guerra di soldati che sono stati in Vietnam, in Afganistan o in Iraq e che soffrono a causa di Disordini da stress post-traumatico. È preoccupante sentire storie di guerra di reduci; raccontano che non possono dormire con le loro mogli per paura che un incubo possa portarli a ferire fisicamente la moglie; che non sono in grado di dormire durante la notte a causa di un eccesso di vigilanza; che non sono in grado di stare all’aperto per timore che un rumore, quello di un uccello che canta o dell’acqua che scorre, possa scatenare modalità di guerra; di non essere capaci di entrare in spazi pubblici, come supermercati o ascensori; di avere sogni di mutilare i figli di qualcuno, di alienarsi amici e famiglie, di non essere in grado di mantenere un lavoro o anche di perdere il lavoro per timore degli spazi pubblici. Molti di loro finiscono per diventare barboni sulle strade americane – il 13% dei barboni negli USA sono reduci di guerra e il 20% della popolazione maschile di barboni è costituita da reduci di guerra. Sono tormentati da immagini demoniache e ricordi della guerra. L’alto indice di esperienza di sintomi di Disturbi post-traumatici da stress (PTDS) tra i reduci del Vietnam dimostra che gli effetti della guerra permangono nel corpo a lungo dopo una missione di guerra. Secondo Jonathan Shay, uno dei pionieri negli USA nel trattare i reduci di guerra sofferenti di Disturbo post-traumatico da stress (PTSD), il perdurare di tale stato avviene nella forma di: un atteggiamento ostile o diffidente dinanzi al mondo; ritiro dalla società; sentimenti di vuoto o di disperazione; sentimento cronico di essere “al margine” come se si fosse costantemente minacciati; estraniamento11. Ci sono molte, molte storie e statistiche che potrei citare a questo proposito, ma mi limiterò alla storia raccontata al radioprogramma “This American Life” concernente la vicenda del reduce John che stava litigando con la sua fidanzata a proposito dell’orario degli autobus. La discussione si accese a tal punto che John andò in colera ed entrò in quello che, in ambito clinico, viene chiamato “stato di follia”12. John prese un coltello e colpì più volte la sua fidanzata. Quando si risvegliò in ospedale, non riusciva a ricordare quello che aveva fatto e la prima cosa che chiese fu: “Ho ucciso mia figlia?” Non aveva ucciso sua figlia13. Questa storia e molte altre simili a questa rivelano che c’è un’ascesi alla guerra: sia attraverso l’addestramento ricevuto nell’esercito sia attraverso gli atteggiamenti assunti durante la guerra per esercitare il corpo alla sopravvivenza dinanzi a costanti minacce di violenza, la guerra è l’annientamento della virtù nel senso che ha un impatto negativo sulla capacità di un reduce di guerra di riprendere i rapporti con la famiglia, gli amici e gli estranei14.Oltre al Disturbo post traumatico da stress (PTSD), sta emergendo una nuova categoria al fine di distinguere una determinata condizione che è il risultato della partecipazione dei veterani alla guerra e che non è più considerata identica al Disturbo post traumatico da stress (PTSD), anche se molti sintomi sono simili. Questa condizione è detta “ferita morale” e si distingue dal Disturbo post traumatico da stress (PTSD) nel senso che non è prodotta da una reazione di paura15. “La ferita morale” si riferisce a una condizione nella quale il reduce di guerra sperimenta la sensazione profonda che siano state violate le sue credenze morali fondamentali. Può derivare dall’aver ucciso persone armate o disarmate, dall’aver torturato prigionieri, abusato di corpi morti o di non essere riusciti a prevenire azioni del genere; può manifestarsi, anche se in realtà i reduci di guerra non avevano la possibilità di evitare simili azioni. Nell’esperienza della ferita morale i reduci di guerra possono giudicare se stessi indegni, incapaci di vivere con un’azione che essi o esse hanno compiuto e che non è mai un’azione che si può cancellare. I sintomi sono simili a quelli del Disturbo post traumatico da stress (PTSD): isolamento, sfiducia negli altri, depressione, dipendenza, distacco emotivo e valutazione negativa di se stessi. Ho sentito innumerevoli storie di reduci di guerra che ammettono di aver paura a parlare di tutto quello che hanno fatto in situazioni di combattimento per timore che la persona a cui ne parlano li giudichi o le giudichi indegni d’amore. In un recente articolo del The New Yorker intitolato “Il ritorno”, si citano le parole di un reduce dalla guerra in Iraq:

Non voglio raccontarle sconcezze [si riferisce alla moglie]… Non voglio che sappia che suo marito, la persona che ha sposato, ha gli incubi per aver ucciso della gente. Mi fa sentire un mostro … Finirà per odiarmi … Quale razza di persona ha sogni come questi?16.

Massimo dice spesso che l’amore di sé è il più grande ostacolo sul cammino dell’apprendimento dell’amore. Nel caso della ferita morale, l’ostacolo non è tanto l’amore di sé quanto il disprezzo di sé privato di ogni maschera d’orgoglio.

Gli effetti della violenza sull’essere umano sono anche chiaramente visibili nei quartieri poveri delle grandi città degli USA (e immagino che sia così in tutto il mondo), dove la minaccia della violenza è costante. Un adolescente che viveva in un quartiere povero di Chicago, infestato da bande violente, lo descriveva come una zona quotidiana di guerra17. A questo proposito, una delle più difficili questioni che devono affrontare gli educatori negli USA riguarda il modo con cui educare i bambini nei quartieri più poveri che regolarmente si comportano peggio a confronto dei bambini nei quartieri della classe media o benestante.

Tanto per fare un esempio, Paul Tough ha recentemente edito il libro How Children Succeed: Grit, Curiosity, and the Hidden Power of Character (Come i bambini hanno successo: coraggio, curiosità e il misterioso potere del carattere), nel quale riporta modi di affrontare questo problema che si focalizzano sul carattere, come il recente lavoro e gli studi dell’economista James Heckman, che ha ricevuto il premio Nobel; questi ha recentemente pubblicato The Myth of Achievement Tests: The GED [General Education Development] and the Role of Character in American Life18 (Il mito del risultato del test: il GED [Sviluppo dell’educazione generale] e il ruolo del carattere nella vita americana). Tough descrive come gli educatori per decenni si sono focalizzati a improvvisare quelle che venivano chiamate “abilità cognitive”, che hanno a che fare con cose quali la lettura e la matematica. Vi sono studi che hanno mostrato che le abilità correlate al successo, come diplomi di college o un lavoro ben retribuito, corrispondono a quelle che sono chiamate “abilità non-cognitive”19. È lo sviluppo di abilità non-cognitive che consente lo sviluppo di abilità cognitive. Secondo James Heckman, i tipi di abilità cognitive e di carattere che sono “cruciali per il successo nella vita economica e sociale … includono perseveranza (coraggio) … fiducia, attenzione, autostima ed efficienza, resistenza agli eventi avversi, apertura all’esperienza, empatia, umiltà, tolleranza di opinioni diverse e l’abilità di impegnarsi attivamente nella società”20. Heckman elenca anche l’autocontrollo, che include controllo degli impulsi, gestione della collera, accettazione del ritardo della gratificazione, o riflessione prima di attuare una cattiva decisione – cose che Robert Merrihew Adams chiama le virtù strutturali21 e che ci ricordano la lista delle virtù di Massimo il Confessore.

Ciò che essi hanno ancora scoperto è che lo stress risalente a esperienze avverse durante l’infanzia, come ad esempio l’esperienza della violenza o la minaccia della violenza, possono prevenire il pieno sviluppo di abilità non-cognitive. Tough riporta dati che indicano che il 51% dei bambini che hanno sperimentato quattro o più eventi avversi risultano avere problemi di apprendimento o di comportamento22. Un trauma, in particolare, può interferire con un sano sviluppo del cervello, con la capacità di prendere decisioni, con la memoria e il tipo di pensiero consequenziale, necessario per risolvere problemi23. Se un bambino sta sperimentando la costante minaccia della violenza a casa propria, lo stress che tale minaccia genera può impedire lo sviluppo di una parte del cervello responsabile di abilità non-cognitive. Un altro modo in cui tale stress veniva spiegato è questo: se, in una foresta, ci si trova di fronte a un orso, la parte del cervello responsabile dell’aggressione si attiverà, e quella parte del cervello responsabile di abilità non-cognitive si disattiverà allo scopo di predisporre la persona alla risposta a uno stato di emergenza. A mio avviso, questo getta una nuova luce sul racconto dell’episodio in cui Serafino di Sarov mangia con gli orsi nella foresta, ma una simile risposta a uno stato di emergenza, in ogni modo, è destinata a essere rara. Per alcuni bambini che vivono in una situazione familiare nella quale la minaccia di violenza è costante, il cervello risponde come se il bambino si trovasse quotidianamente dinanzi a un orso. Se la risposta a uno stato di emergenza del cervello viene attivata ripetutamente, il cervello inaugura vie che progressivamente diventano radicate. Nelle situazioni quotidiane questo significa che è difficile per questi bambini imparare la lettura e la matematica in classe quando il cervello si trova costantemente in una modalità di risposta a uno stato di emergenza. Non è inusuale che tali bambini abbiano a scuola problemi di comportamento che spesso si manifestano in accessi di collera. Janine Hron, che è l’amministratore delegato del Crittenton Children’s Center (Centro per i bambini Crittenton), che ha sviluppato l’Head Start Trauma Smart (Sofferenza traumatica a partire dalla testa ?) negli USA, amplia questo punto:

Bambini che vivono eventi cronici avversi significativi diventano ipervigilanti … Le loro emozioni li sommergono. Hanno difficoltà a dormire, difficoltà a stare attenti in classe, sono iperattivi e finiscono per essere gettati fuori dalla scuola. Il numero di persone che stanno sperimentando questi traumi è realmente epidemico24.

Essere circondati dalla violenza o sperimentarla direttamente può effettivamente plasmare il cervello in modo tale da creare vizi di paura e di collera (ancora una volta, non necessariamente segno di amore di sé, ma piuttosto di disprezzo di sé), due dei vizi che Massimo dice fanno giungere alla via dell’amore. Questi vizi, tra gli altri, vanno pregiudicando l’abilità di stare in quel genere di relazione che non dovrebbe semplicemente permettere all’amore di esistere, ma il genere di relazione che dovrebbe permettere di apprenderlo. Ciò che è realmente straordinario in tutto questo, almeno per me, è il nesso tra quello che tutti questi studi stanno mostrando con tutto quello che Massimo dice a proposito dell’interrelazione tra la manifestazione delle virtù e ciò che considera (?) come contemplazione.

Verso un’antropologia della pace

Se seguiamo Massimo il Confessore, allora l’antropologia della pace è un’antropologia che afferma la capacità umana di comunione con Dio. Il movimento verso tale comunione con Dio – la théosis – è identico all’umano apprendimento dell’amore, a vedere l’altro come Dio lo vede, perfino lo straniero e il nemico. L’imparare come amare avviene attraverso l’acquisizione delle virtù che vengono manifestate attraverso pratiche ascetiche. Si potrebbe certamente affermare che le violente disgregazioni che avvengono nel corso della storia umana sono radicate nelle disgregazioni dell’essere umano provocate in modo particolare dai vizi della paura, della collera e dell’odio. Tali paura e collera sono spesso il risultato della violenza provocata da ciascuno, inflitta da qualcuno o afflitta a qualcuno o a qualche gruppo dal quale ci si sente aggrediti. Tanti sono posseduti dalla paura fin dalla nascita, sono in collera con qualcuno e odiano qualcun altro che, a un certo punto della storia, è stato la fonte di qualche forma di violenza. In un circolo vizioso di paura, collera e odio, l’identità si radica e si rafforza contro quelli che sono stati causa di violenza per il proprio popolo. Un esempio tra tanti altri: sono passati almeno ottocento anni dalla quarta crociata e non è raro che un ortodosso covi ancora odio per questa storia.

La descrizione dell’antropologia della pace di Massimo in termini di virtù illumina come la violenza può provocare, come Jonathan Shay afferma, una “perdita di carattere” nel senso di rendere difficile l’amore. Diventa difficile di fronte al nemico che ha fatto violenza a una persona o un popolo, ma diventa difficile per il soldato che sta sperimentando un Disturbo post traumatico da stress (PTSD) o un’offesa morale, o per quello che vive in povertà che si trova costantemente di fronte alla minaccia della violenza o la sperimenta di continuo; nella misura in cui tali esperienze di violenza nella guerra e nella povertà rendono difficili le relazioni. Il soldato evita il ristorante e il bar; il povero inveisce contro la famiglia, gli amici e gli insegnanti.

Sebbene la descrizione delle virtù di Massimo possa illuminare gli effetti della violenza sull’essere umano in quanto reprime la loro capacità di amare, e perciò di théosis, può sembrare che le pratiche ascetiche che Massimo raccomanda possano aver poco da offrire per far fronte a tale violenza. Cosa che non sarebbe corretta.

Per esempio, in risposta al problema degli effetti della violenza sull’apprendimento, il programma dell’Head Start Trauma Smart ha degli studenti impegnati in pratiche quali esercizi di respirazione per aiutare a controllare la collera e rendere capaci di imparare, creando perfino delle “stelle di respirazione” [strumento per insegnare ai bambini la respirazione profonda per aiutarli a rilassarsi], mostrando che i metodi di disciplina tradizionali basati sulla paura, sulle punizioni fisiche, sono inefficaci. Il programma si dedica anche a formare la comunità che attornia bambini che vivono esperienze avverse, come le guide degli autobus e i camerieri dei caffè, per sviluppare una rete di risposte appropriate per il bambino; in altre parole l’esercizio nella virtù si spinge al di là del bambino, concentrandosi in special modo sulla perspicacia. Ricorrendo al sistema di Achenbach come strumento standard di valutazione, l’Heard Start Trauma Outcome Report indica che un bambino che è sottoposto a terapia mostra un miglioramento delle reazioni emotive, dell’ansietà, dei disturbi somatici, del ritiro, della privazione di sonno, della vigilanza sull’aggressività, dello stress e del comportamento provocatorio di opposizione25.

Ciò che è interessante negli studi citati nel libro di Paul Tough è che viene mostrato come un corretto attaccamento al genitore o ai genitori può aiutare il bambino a reggere lo stress generato da situazioni avverse26. In altre parole, lo sviluppo di relazioni corrette grazie alle virtù può reagire ai vizi creati dall’esperienza o dalla minaccia della violenza. Ciò che più da speranza è che queste abilità non cognitive possono essere apprese anche da adulti; in altre parole, l’essere umano è stato creato in modo tale che queste abilità non cognitive possono essere apprese a qualunque età.

Anche se vi erano numerose pratiche che permettevano l’acquisizione della virtù e perciò la capacità di relazioni di fiducia, intimità, profondità e amore, mi limiterò a un fatto che è una chiave per ogni ripristino della virtù sia nella letteratura psicologica sia in quella ascetico-mistica: la pratica del narrare la verità o della confessione. Tanto Jonathan Shay quanto Judith Herman, nella loro esperienza con le vittime del trauma, testimoniano la fondamentale verità che la guarigione non può avvenire prima che la vittima del trauma possa cominciare a parlare degli eventi traumatici. Raccontare la verità per se stessa non è sufficiente per la guarigione, ma è assolutamente necessario. Così la narrazione della verità del trauma non può cominciare prima che per la vittima sia stato costruito un ambiente sicuro e protetto, cosa che Herman definisce come fase di recupero27. Dire la verità riguardo al trauma della guerra può essere interpretato come una concretizzazione della virtù dell’umiltà, nel senso che rendersi vulnerabile è un requisito per aprirsi all’amore e all’essere amati. Il monaco cristiano del vi secolo, Doroteo di Gaza, paragona la vita cristiana alla costruzione di una casa:

Il tetto è l’amore, che è il compimento delle virtù così come il tetto lo è della casa. Poi, dopo il tetto, vi è il parapetto della terrazza ... Il parapetto è l’umiltà, perché corona e custodisce tutte le virtù. E come ogni virtù deve essere accompagnata dall’umiltà – come abbiamo detto che ogni pietra deve poggiare sul fango – così anche la perfezione della virtù ha bisogno dell’umiltà28.

La ricostruzione della narrazione deve avvenire in un contesto in cui vi siano altre persone, in una forma di comunità. Shay afferma che

guarire da un trauma dipende dalla condivisione del trauma: essere capaci di raccontare al sicuro la storia a qualcuno che ascolta e di cui ci si può fidare che la riferirà fedelmente agli altri nella comunità”29.

Riuscire a mitigare il potere demoniaco dipende dalla verità, anche se tale verità ha a che fare con l’esperienza del demoniaco, e questa verità ha bisogno di essere “condivisa”, detta e ascoltata da altri. Nel corso degli anni, Shay ha riscoperto che tale condivisione è più efficace quando la comunità stessa è costituita da quanti conoscono, direttamente o indirettamente, gli effetti del trauma della lotta. Più o meno come avviene tra gli alcolisti anonimi, il potere di guarigione della narrazione della verità non dipende semplicemente dal dire la verità, ma da chi l’ascolta30. L’effetto di rimbalzo della narrazione della verità dipende dal significato simbolico-iconico del fatto che qualcuno ascolta. Voglio dire chiaramente che quando raccomando la pratica ascetica della narrazione della verità, non sto presentando una ricetta: “dire la verità ed essere guarito”. La parola di verità detta in Gesù rende possibile una nuova relazione di intimità tra l’increato e il creato, la pratica ascetica della narrazione della verità ha il potere di formare un nuova via di relazioni di intimità e di fiducia anche per quelli che hanno sperimentato la violenza e la sofferenza da Disturbo postraumatico da stress (PTSD).

La narrazione della verità sarà particolarmente importante per elaborare il perdono che è esso stesso una manifestazione della virtù dell’amore, ma al cuore dell’offesa e attraverso l’offesa o il peccato, che spesso assumono la forma della violenza. È stato mostrato che per queste sofferenze dovute a offesa morale, parlarne o mettere a nudo ciò che affligge l’uno o l’altra, benché necessario, non è efficace allo stesso modo in cui può essere per quelli che soffrono di Disturbo post-traumatico da stress (PTSD). È chiaro che quelli che sono afflitti dalla disgregazione dell’offesa morale sono tentati in qualche forma di auto-perdonarsi.

Nel caso dell’offesa morale, e in molti altri esempi di violenza e di malvagità, il perdono si rivela non come un contratto – confesso semplicemente il mio peccato e Dio è obbligato a perdonare; questo non può essere preteso, né è oblio del male o della violenza. Perdonare è una condizione in cui si risponde diversamente al ricordo del peccato o della violenza. Non si può voler perdonare; si diventa perdono e questo diventare perdono si traduce in una relazione che non dimentica, nega o anche va al di là del male che c’è stato, ma una relazione che persiste al cuore del male e come effetto di tale male. Più ancora il perdono porta a un’intimità nella e attraverso la violenza o il peccato commesso, che normalmente sarebbe considerata impensabile.

L’amore che appare dopo l’esperienza della violenza, non lascia alle spalle questa violenza. Nel ricostruire ciò che della virtù è stato distrutto a causa della violenza, l’imparare ad amare da parte dell’essere umano non significa dimenticare o cancellare la violenza sperimentata; non significa neppure andare al di là dell’esperienza della violenza; è sempre un muoversi dentro e con l’esperienza della violenza, specialmente dal momento in cui qualsiasi forma assuma l’amore, avrà qualcosa a che fare con la violenza sperimentata. Come afferma in modo così eloquente la teologa anglicana Marylin McCord Adams: “Per superare la partecipazione all’orrore dentro alla vita della persona creata, Dio deve introdurla dentro la costruzione di quell’intima, individuale … beatifica personale relazione con Dio”31.

La speranza cristiana che sto illustrando afferma che la disgregazione attuata dalla violenza non rende impossibile l’amore, per quanto qualunque specie di amore non possa cancellare quello che è stato fatto. La violenza affermata come parte della narrazione propria di qualcuno è per sempre costitutiva di tale narrazione, anche se la tale narrazione non può essere ridotta a quell’esperienza di violenza. Il male o la violenza non sono necessari per amare, ma l’amore non è necessariamente una negazione dell’esperienza del male o della violenza. Si muove dentro, attraverso e con tali esperienze contrarie come se non permettesse alle nostre storie individuali e alla storia della creazione di essere ridotte a tali esperienze. Amore come perdono non si riferisce a una frontiera “al di là” di esperienze contrarie, come la violenza, ma a “un di più” in un certo senso costituito da tali esperienze ma non riducibile ad esse. Questo punto è importante di fronte a quelli che potrebbero sostenere che, alla luce del fatto che perdita e, quindi, lutto sono costitutivi dell’io, della nostra identità, che non c’è e non può esserci una cosa come l’amore. Un’antropologia della pace come amore, come perdono, come virtù è un duro lavoro; l’amore lo si impara, ma per il cristiano deve essere un apprendimento guidato dalla speranza che “né morte, né vita, né angeli, né principati, né presente, né avvenire, né potenze, né potenze, né altezza né profondità, né alcun altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8,38-39).

1 Massimo il Confessore, Lettera sulla carità, a cura di L. Cremaschi, Magnano 1994, p. 15.

2 Id., Capitoli sulla carità 1,11, a cura di A. Ceresa Gastaldo, Roma 1963, p. 53.

3  Ibid. 2,14, p. 97.

4  Ibid. 1,71, p. 77.

5 Ibid., 1,15, 55.

6 Ibid. 4,18, p. 201.

7  Ibid. 4,19.21, pp. 201-203.

8 Ibid. 4,81, p. 231.

9 Ibid. 3,39.41, p. 163.

10 Ibid. 1,29, p. 59.

11 Cf. J. Shay, Achilles in Vietnam: Combat Trauma and the Undoing of Character, New York 1994, p. 169. Si veda anche: Id., Odysseus in America: Combat Trauma and the Trials of Homecoming, New York 2002. Sul trauma si veda anche il saggio classico di J. Herman, Trauma and Recovery: The Aftermath of Violence from Domestic Abuse to Political Terror, New York 1992.

12 Per una definizione dello “stato di follia” si veda J. Shay, Achilles in Vietnam, p. 80. In una brillante analisi dell’Iliade, Shay dimostra come Achille divenne pazzo furioso dopo la morte del suo amico Patroclo.

13 http://www.thisamericanlife.org/radio-archives/episode/59/life-after-death.

14 Per l’ascesi di guerra si veda: Lt. Col. D. Grossman, On Killing: The Psychological Cost of Learning to Kill in War and Society, New York; R. M. MacNair, Perpetration-Induced Traumatic Stress: The Psychological Consequences of Killing, Westport, CT 2002.

15 Sulla “ferita morale” si veda B. T. Litz et al., “Moral Injury and Moral Repair in War Veterans: A Preliminary Model and Intervention Strategy”, in Clinical Psychology Review 29 (2009), pp. 695-706; S. Maguen et al., “The Impact of Reported Direct and Indirect Killing on Mental Health Symptoms in Iraq War Veterans”, in Journal of Traumatic Stress 23 (2010), pp. 86-90; S. Maguen et al., “Killing in Combat, Mental Health Symptoms, and Suicidal Ideation in Iraq War Veterans”, in Journal of Anxiety Disorders 5 (2011), pp. 563-567; K. Drescher et al., “An Exploration of the Viability and Usefulness of the Construct of Moral Injury in War Veterans”, in Traumatology 17/1 (2011), pp. 8-13. Per considerazioni teologiche si veda W. Kinghorn, “Combat Trauma and Moral Fragmentation: A Theological Account of Moral Injury”, in Journal of the Society of Christian Ethics 32/2 (2012), pp. 57-74; R. Nakashima Brock e G. Lettini, Soul Repair: Recovering from Moral Injury after War, Boston 2012.

16 D. Finkel, “The Return: The traumatized veterans of Iraq and Afghanistan”, in The New Yorker, 9 settembre 2013, p. 36.

17 Cf. L. Jones e L. Newman, Our America: Life and Death on the South Side of Chicago, New York 1998, p. 170.

18 Cf. The Myth of Achievement Tests: The GED and the Role of Character in American Life, a cura di J. J. Heckman, J. E. Humphries e T. Kautz, Chicago 2014.

19 Ibid., p. 341. Si veda anche: P. Tough, How Children Succeed: Grit, Curiosity, and the Hidden Power of Character, New York 2012, XIX, pp. 148-175.

20 Ibid., p. 342.

21 R. Merrihew Adams, A Theory of Virtue: Excellence in Being for the Good, Oxford 2006, p. 37.

22 Cf. P. Tough, How Children Succeed, pp. 1-48, specialmente p. 17. Si veda anche N. J. Burke et al., “The Impact of Adverse Childhood Experiences on an Urban Pediatric Population”, in Child Abuse and Neglect 35/6 (June 2011), pp. 408-413. Cf. anche “The Adverse Childhood Experiences Study”, www.acestudy.org, ultimo accesso 15 maggio 2014.

23 Cf. P. Tough, “Teaching Children to Calm Themselves”, in The New York Times, 20 March 2014.

24 Ibid. Si veda anche S. P. Walker et al., “Inequality in early childhood: risk and protective factors for eatrly child development”, in The Lancet 378 (9799), pp. 1325-1338, specialmente . 1331 e S. P. Walker et al., “Child development: risk factors for adverse outcomes in developing countries”, in The Lancet 369 (9556), pp. 145-157, specialmente p. 152.

25 Ibid. Per i dati completi si veda l’Head Start Trauma Report 2013 http://www.saintlukeshealthsystem.org/head-start-trauma-smart (ultimo accesso 7 aprile 2014.

26 Cf. P. Tough, How Children succeed, pp. 31-48.

27 Cf. J. Shay, Odysseus in America, p. 168. Shay sta prendendo le distanze da Herman, Trauma and Recovery, New York 1992.

28 Doroteo di Gaza, Insegnamenti 14,151, in Id., Comunione con Dio e con gli uomini, a cura di L. Cremaschi, Magnano 2015, p. In precedenza Doroteo identifica l’umiltà al fango della casa dell’anima. “Il fango è l’umiltà perché viene dalla terra ed è sotto i piedi di tutti. Ogni virtù senza umiltà non è una virtù” (Ibid.).

29 Ibid., p. 4.

30 Sulla narrazione della verità negli alcolisti anonimi si veda A. Papanikolau, “Liberating eros: Confession and Desire”.

31 M. McCord Adams, Christ and the Horrors, Cambridge 2006, p. 47.