Conclusioni - La sapienza del deserto

XXIX Convegno Ecumenico Internazionale di Spiritualità Ortodossa
LA SAPIENZA DEL DESERTO
I detti dei padri e delle madri

Monastero di Bose, 5-8 settembre 2023
in collaborazione con le Chiese ortodosse

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fr. Luigi d’Ayala Valva, monaco di Bose

Eccoci giunti anche quest’anno al termine dei giorni del nostro convegno, in cui ci siamo messi in ascolto della sapienza del deserto testimoniata dai Detti dei padri e delle madri. Un tema ricco nelle sue tematiche e nelle sue implicazioni per la vita cristiana, e solo apparentemente facile.

Nell’organizzare il convegno di quest’anno il nostro intento iniziale era di proseguire il discorso avviato l’anno scorso con il convegno dedicato a Isacco il Siro e il suo insegnamento spirituale, una figura di santità che con il suo insegnamento ha contribuito a plasmare la tradizione spirituale delle chiese ortodosse e allo stesso tempo ha ricevuto un’accoglienza unanime in tutte le altre tradizioni cristiane. Con i Detti dei padri e delle madri siamo di fronte a un caso simile. Qui però non si tratta di un’unica figura di santità, ma di una folla di santi, e non dell’opera di un unico autore, ma di un insieme eterogeneo di testi di cui è difficile discernere con precisione la paternità e l’origine. Anche per questo, come dicevo, si tratta di un tema solo apparentemente facile.

Nell’affrontare un tema del genere all’interno di un convegno di questo tipo occorreva evitare alcuni rischi – mi sembra che ne siamo stati coscienti fin dall’inizio, ma non so se poi siamo riusciti a evitarli completamente –: il rischio, da una parte, di un approccio puramente scientifico, ovvero storico-letterario, che si perdesse nei meandri delle infinite problematiche che testi di questo genere pongono agli studiosi. Dall’altra parte, il rischio opposto di un approccio puramente teologico-spirituale che non prendesse in minima considerazione le acquisizioni della ricerca relative al complesso processo che ha dato origine ai testi; o ancora il rischio di un approccio che chiamerei ingenuo o devozionale, che si limitasse a vedere nei Detti una galleria di storielle edificanti, senza coglierne la sapienza profonda e senza riconoscere le aporie e le sfide che, dietro l’apparente semplicità, tuttora essi pongono agli uomini e alle donne di oggi.

Innanzitutto abbiamo cercato di comprendere meglio il contesto che in qualche modo ha “generato” questi testi, la storia che essi hanno alle spalle, e (nella misura in cui è possibile conoscerli) gli intenti di coloro che li hanno raccolti e consegnati alla posterità come testo scritto. Ewa Wipszycka ci ha offerto una sintesi magistrale di un’intera vita di ricerca dedicata a indagare gli spazi e le strutture del monachesimo egiziano. Il suo approccio rigorosamente storico e fondato sul confronto sistematico delle fonti letterarie con le fonti documentarie e archeologiche ci aiuta a “mantenere i piedi per terra”, a sapere innanzitutto di che cosa parliamo quando parliamo di monachesimo egiziano. Allo stesso tempo ci aiuta a renderci conto che i testi letterari sono innanzitutto guidati dall’intento di trasmettere una disciplina spirituale e tendono a idealizzare, a semplificare, a creare modelli, “miti”, e quindi inevitabilmente ad alterare la realtà storica (cui pure si riferiscono) in funzione di quest’intento. Pensiamo a quello che la professoressa ci ha detto sulla mobilità dei monaci, sui lavori che esercitavano, sul loro rapporto con le proprietà, sulla loro estrazione sociale e sul loro grado di acculturazione, sulla loro libertà nelle discussioni dottrinali, sulla molteplicità delle forme di vita monastica che conducevano. Tutti aspetti che si discostano, almeno in parte, da quanto leggiamo nei Detti e in altre fonti monastiche, offrendoci un quadro assai più vario e vivace del mondo monastico egiziano. Riconoscere tutto questo non significa solo onorare la verità storica, ma è anche un servizio prezioso per una migliore comprensione di questi testi.

Anche la relazione di Samuel Rubenson, per certi versi complementare rispetto alla prima, facendo sintesi delle acquisizioni più recenti degli studiosi (e delle ricerche ancora in corso) ha sostanzialmente confermato, questa volta a partire da un approccio storico-letterario, la stessa prospettiva. Le collezioni che possediamo dai manoscritti antichi e che sono state (parzialmente) editate e tradotte nelle varie lingue moderne sono frutto di un lungo processo di formazione. Contrariamente a quanto si è pensato fino a poco tempo fa, non sono il frutto della semplice trascrizione, raccolta e selezione di tradizioni orali che riprodurrebbero, quasi “in presa diretta”, le voci e le vite dei padri vissuti in Egitto nel IV e V secolo. Sempre più appare come il loro carattere sia essenzialmente letterario (e di matrice originariamente greca, più che copta, come indica anche la dipendenza dai modelli classici) e il loro scopo essenzialmente pedagogico. Formatesi con ogni probabilità in Palestina tra V e VI secolo, tali collezioni sono anche il frutto dei conflitti che hanno attraversato questa regione: le crisi origeniste e le dispute cristologiche. Non nel senso che esse riflettono direttamente queste controversie nel loro contenuto, ma nel senso che furono proprio questi eventi a spingere i monaci a cercare di custodire e aggiornare in modo creativo almeno una parte di quella che Rubenson ha definito la “radicale curiosità e libertà intellettuale” che aveva caratterizzato la spiritualità egiziana del IV secolo, e che si era sviluppata attorno a maestri monastici ed era saldamente basata sulle tradizioni filosofiche greche. D’altra parte, nell’organizzare le grandi collezioni si percepisce anche l’interesse a regolamentare, a ordinare e strutturare questa tradizione monastica passata, enfatizzando alcune particolari tematiche e sottoponendola almeno in parte a criteri di natura dogmatica.

Dovremmo quindi rinunciare a vedere in questi Detti gli ipsissima verba patrum, per quanto per alcuni (o forse per tutti) ciò possa apparire alquanto deludente, rassegnandoci a leggerli sempre più come testimonianza della tradizione palestinese dei secoli V-VI e delle sue attività pedagogiche volte a creare a una cultura monastica da trasmettere alle generazioni successive. Penso che tutto questo ci aiuti, oltre che a riconoscere la vera natura e funzione di questi testi (che non è puramente storica), anche a riscoprire il vero senso della tradizione monastica. Non contano infatti soltanto le origini di questi testi (che in buona parte ci restano oscure), ma anche la lunga tradizione che li utilizzati, plasmati e trasmessi fino a noi.

In modo simile Dimitrios Moschos ha mostrato come la ricca varietà di correnti spirituali presenti nei deserti egiziani tra IV-V secolo fu sottoposta a un’operazione di semplificazione e di sintesi in seguito alle dispute cristologiche: in questo modo i padri del deserto dei Detti furono idealmente assunti come comunità-modello per ritrovare una certa unità al di là di quei conflitti ecclesiali e teologici. Di fatto all’interno dei Detti i conflitti vengono messi in sordina e sullo sfondo: i monaci per lo più vi appaiono ritirati e lontani dalle dispute e dalle relazioni con la gerarchia; ed è tipica la reazione dell’abba del deserto che si rifiuta di parlare di teologia ma orienta il discorso sulla lotta spirituale e sulla vita interiore. La realtà del conflitto in questo modo non viene negata, ma è trasferita a un altro livello: a livello del cuore, dei pensieri, delle passioni. È questa la prospettiva dei Detti, in parte frutto del contesto in cui si sono formati.

Sebbene dunque la “sapienza del deserto” trasmessa nelle collezioni dei Detti sia anche frutto di revisioni e interpretazioni successive, molto più che di una derivazione naturale dalla “viva voce” dei padri del deserto egiziano, essa si offre a noi ancora oggi come autentica sapienza, frutto della volontà di uomini e donne di rimanere fedeli al vangelo nonostante tutto, di “cercare il regno di Dio e la sua giustizia” (Mt 6,33), e di trasmettere quest’arte ai discepoli. Resta quindi non solo legittimo, ma direi doveroso per noi continuare a leggere e ad ascoltare i Detti nella forma in cui ci sono giunti, cercando di coglierne le tematiche e le dinamiche spirituali che li attraversano.

Le conferenze successive sono state perciò dedicate ad analizzare alcuni dei temi maggiori contenuti nelle collezioni dei Detti. Evidentemente la scelta non poteva che essere limitata e parziale: molti temi ugualmente importanti avrebbero potuto essere considerati. Il p. Viacheslav Patrin ci ha innanzitutto mostrato lo spazio centrale della meditazione della Scrittura unita alla preghiera continua nella vita dei monaci riflessa nei Detti, un’attività a cui essi dedicavano il tempo trascorso in cella e che plasmava non solo il loro modo di pregare e di relazionarsi con Dio, ma più in generale il loro modo di parlare, di pensare e di vivere. La Scrittura letta in senso spirituale come “specchio” della vita del monaco è di fatto onnipresente nei Detti dei padri e delle madri del deserto, rappresenta la trama e una delle dinamiche fondamentali del loro mondo spirituale.

È dall’ascolto profondo e dalla lettura orante della Scrittura che nasce anche la paternità spirituale secondo i Detti, come ha mostrato l’intervento intenso e pieno di sapienza di p. Agapie Corbu, dedicato ad analizzare il rapporto tra abba e discepoli e l’evento della parola che si realizza al suo interno. Quali sono – si è chiesto p. Agapie – le condizioni che l’anziano e i discepoli devono soddisfare perché questa parola agisca realmente? Da una parte, proprio la meditazione e la lettura contemplativa della Scrittura (non “nella lettera” ma “nello spirito”), attività che arriva a conformare la parola dell’anziano alla parola di Dio, conferendogli un’autentica autorità spirituale; dall’altra un atteggiamento di umile ascolto e docile obbedienza da parte del discepolo, che, al di là delle parole, significa disponibilità a lasciarsi plasmare dalla vita e dall’esempio dell’anziano, a sintonizzarsi con il suo mondo interiore e il suo silenzio, fino ad arrivare a comprenderne il segreto e la sorgente profonda. Un atteggiamento diverso da parte dei discepoli – mostrano i detti – può addirittura arrivare a chiudere la bocca agli anziani, estinguendo in loro la fonte della parola, come testimonia in modo drammatico un detto di abba Felice1. Di fatto p. Agapie ci ha mostrato il rischio, sottolineato dai Detti, di un mutamento degli ideali e della mentalità monastica, che in ultima analisi deriva da un capovolgimento delle priorità e proprio dalla perdita della centralità della meditazione silenziosa della parola di Dio, con il conseguente spostamento dell’attenzione su elementi non essenziali, spesso puramente esteriori: la loro assolutizzazione – ieri come oggi – ha finito per creare fanatismi e divisioni all’interno della vita monastica.

All’ambito del rapporto di paternità spirituale rimanda anche la pratica del discernimento di cui ci ha parlato p. Adalberto Piovano, un altro dei grandi temi dei Detti, non a caso posto al centro della collezione sistematica con il lunghissimo capitolo X. Concetto difficile da definire, il discernimento è un elemento onnipresente nella vita del monaco, tanto che un detto afferma che esso è “l’opera del monaco”2. Più che qualcosa da “fare” il discernimento è un atteggiamento di fondo da assumere in ogni situazione: è la virtù per eccellenza degli abba, che i monaci principianti, alla loro scuola, sono chiamati ad acquisire per imparare gradualmente a camminare con le proprie forze, come “monaci provati”. Grazie al discernimento ogni atto, ogni osservanza, ogni virtù, ogni pratica di vita ha valore non tanto in sé, ma nella misura in cui tutto ciò è riconosciuto come conforme alla verità interiore di ciascuno. Come dice un altro detto: “Quel che vedi che la tua anima desidera secondo Dio, fallo e custodisci il tuo cuore”3. Il discernimento nei Detti si presenta così come un cammino all’interno del “deserto della scelta”, come ha detto ancora p. Adalberto, come uno spazio in cui la libertà è messa a confronto con ciò che è essenziale per vivere ed essere salvati: la volontà di Dio. Qui tocchiamo quello che prima chiamavo l’aspetto “aporetico” dei Detti, il fatto cioè che essi per lo più non offrano certezze ai loro lettori né soluzioni prêt-à-porter e applicabili a ogni situazione, perché le vere soluzioni non trovano spazio in un insegnamento teorico, ma nel concreto della vita e della “lotta”, e nel confronto con il padre spirituale, così come nella conoscenza e nel discernimento del proprio “cuore” da parte di ciascuno.

Il vero discernimento per gli abba non esaurisce le domande, ma le lascia aperte, le rilancia, a un livello sempre più profondo. Questo però non lascia il monaco nella paralisi dell’indecisione né deve condurlo alla conclusione che, visto che non esistono scelte definitive e assolute, una scelta vale l’altra. Sarebbe un grave errore leggere i Detti in chiave relativistica – è stato ripetutamente notato in questi giorni – come una sorta di patchwork post-moderno in cui tutte le soluzioni si equivalgono e si offrono come possibili, e ciascuno sceglie quella che più gli conviene secondo il gusto e il momento. In realtà per i padri e le madri un criterio fermo esiste, ed è proprio la ricerca non della propria volontà ma della volontà di Dio, la quale, nella misura in cui non è mai qualcosa di pienamente definibile e comprensibile una volta per tutte, chiede a ciascuno di noi di custodire umilmente le domande (“Chi sono io?”, come dice un detto4), di mettere in gioco tutta la propria libertà e di restare in cammino, consapevoli da una parte dei limiti della nostra umanità e dall’altra della misericordia di Dio che non ha limiti, e che ci chiama a imitarlo sempre nella carità, secondo la varietà delle situazioni che la vita ci pone davanti.

Nell’ambito del discernimento si situa anche la tensione fondamentale tra amore di Dio e amore del prossimo di cui ci ha parlato Norman Russell, una tensione che percorre tutte le collezioni dei Detti (ma potremmo dire anche la Scrittura e la spiritualità cristiana), una tensione che non cessa di sollevare interrogativi5 e che non è mai risolta dai padri e dalle madri del deserto in modo definitivo, sebbene per lo più essi lascino intendere (e talora lo affermino esplicitamente) che in realtà amore di Dio e amore del prossimo non sono né possono essere in opposizione, perché Dio stesso è carità (cf. 1Gv 4,7)6 e quindi, come affermerà più tardi Doroteo di Gaza, un erede e interprete dei padri del deserto, quanto più si è vicini a Dio, tanto più si è vicini al prossimo e viceversa7. Il fatto però che la questione bene o male sia riproposta di continuo nei Detti contribuisce a mantenere anche qui la vita del monaco (e del cristiano) in un dinamismo di inquietudine che non gli permette di accontentarsi di aver risolto il problema una volta per tutte. E questo dà alla vita dei padri del deserto quel carattere di “apertura” incondizionata (e quindi di libertà) che è forse il segreto della loro santità, e che indubbiamente ha condotto molti di loro, secondo la testimonianza dei Detti, a ciò che – come ha ricordato Russell – la tradizione orientale chiama “deificazione” (théosis), al diventare “tutto fuoco”8, pienamente assimilati al Dio che è amore e “fuoco divorante” (Eb 12,29).

Alla stessa problematica rimanda anche il discorso sul valore e sui limiti dell’ospitalità monastica di cui ci ha parlato Athanasios N. Papathanasiou. Che l’ospitalità, ossia l’accoglienza dello straniero, abbia un grande valore è tutta la Scrittura a dircelo e i padri del deserto non fanno che ripeterlo continuamente, mostrando di mettere in pratica questa verità. Particolarmente significativi quei detti in cui, in fedeltà alla parola del Vangelo, l’ospite è riconosciuto come concreta presenza di Cristo, presenza capace di “interrompere” letteralmente ogni altra attività ascetica o spirituale, perché nella vita cristiana qualunque attività o è in funzione e in vista di quella presenza oppure non ha senso9. Da questo punto di vista l’accoglienza dell’ospite è un valore che, si potrebbe dire, si presenta senza limiti prefissati. Eppure possiamo chiederci: esistono dei limiti nell’ospitalità? Una domanda estremamente attuale, che Papathanasiou ci ha invitati a indagare in modo originale, non solo alla luce dei Detti ma in confronto con la riflessione filosofica contemporanea. Se è vero che la totale consegna di sé alla volontà di Dio davanti all’ospite e l’astensione da ogni reazione anche in caso di ospitalità violenta sono teologicamente legittime e possono talora essere espressione di virtù suprema – ne abbiamo esempi nei Detti –, è anche vero che ciò richiede una forza che non è di tutti e non si possono sacrificare vittime indifese sull’altare dell’ospitalità assoluta (si ricordi il caso delle figlie di Lot del racconto biblico). Più in generale, esistono limiti positivi messi in luce nei Detti che consentono di preservare la verità dell’atto dell’ospitalità. I padri mostrano di saper conciliare in maniera originale ospitalità e verità. Per essere “vera” un’ospitalità per loro ha sempre bisogno di prossimità, di una parola formulata, di riconoscimento del volto dell’altro, in una parola, ancora una volta, di discernimento, diversamente dalla cosiddetta “ospitalità assoluta” difesa teoricamente dai filosofi contemporanei, che appare tanto come una “stanza vuota”.

Alla pluralità delle tematiche e dei punti di vista, corrisponde la pluralità delle figure dei padri e delle madri presenti nei Detti. Nonostante i tentativi di ordinamento e di selezione di cui abbiamo parlato, chi ha prodotto le raccolte tardo-antiche ha resistito al tentativo di riconciliare la diversità delle voci, che significa appunto anche diversità di storie, di personalità e di prospettive di pensiero. Come anche nella Scrittura, questa mancanza di sintesi non è una debolezza, ma rappresenta la genialità di queste raccolte. Quindi nei Detti parlano un gran numero di padri e anche alcune madri, e noi ci siamo messi in ascolto di alcuni di loro.

Lasciando da parte i nomi più famosi (ad esempio Antonio o Macario o altri), su cui altre volte ci siamo soffermati e che potranno essere ancora oggetto di altri futuri convegni, abbiamo voluto considerare innanzitutto la figura di abba Poimen, conosciuta solo attraverso i Detti, ma in queste raccolte del tutto centrale, tanto che si è parlato di lui come della “quintessenza dei padri del deserto”10. Tim Vivian, un grande studioso che ha dedicato buona parte della sua carriera accademica a editare, tradurre e commentare i testi dei padri del deserto, ci ha parlato di Poimen presentandocelo in modo fresco e originale come il “pedagogo del deserto” e facendo emergere un interessante itinerario attraverso i suoi detti, che noi lettori siamo invitati a percorrere. Il nome Poimen significa “pastore”: di fatto, con la sua parola e la sua vita, egli appare come pastore e guida in un cammino di conversione spirituale che mette in discussione e trasforma i meccanismi di reazione automatica profondamente mondani di cui tutti rischiamo di restare prigionieri (giudizio, condanna e rifiuto dell’altro): questo cammino, passando attraverso il discernimento, conduce invariabilmente ad abbracciare la compassione a imitazione di Cristo. Il grande spazio riservato ai detti di Poimen mostra come anche i valori da lui promossi (discernimento, moderazione, compassione) siano al cuore del messaggio pedagogico che gli autori delle raccolte intendevano trasmettere alle generazioni successive, pur all’interno della varietà estrema dei detti che vi sono contenuti. Il capitolo più lungo della serie alfabetica dedicato a Poimen fa da pendant al capitolo più lungo della serie sistematica dedicato al discernimento; e forse questo non è un caso.

La nostra sorella Lisa Cremaschi ci ha parlato poi delle cosiddette “madri del deserto”, di cui recentemente ha curato una raccolta. Presenza certamente marginale (tre donne a fronte di 130 uomini), le madri del deserto sono significative anzitutto per il fatto che ci sono e per quello che rappresentano, come oggi un intero filone di studi non manca di sottolineare: esse rappresentano la novità evangelica del fatto che in Cristo “non c’è più né giudeo né greco, né uomo né donna” (Gal 3,28). L’analisi dei Detti di Sincletica, Teodora e Sarra, tre monache che ci si presentano ciascuna con il proprio volto particolare, permette forse di cogliere, dietro al linguaggio e ai discorsi stereotipati, alcuni elementi di insegnamento e di pensiero originale, anche se quasi assenti sembrano i tratti in cui potremmo riconoscere una spiritualità veramente “al femminile”. La forza del modello maschile forse non permetteva reali alternative. Resta comunque il fatto che la presenza di tre voci femminili all’interno di un intero coro di uomini è un riconoscimento della piena legittimità e dignità del cammino monastico delle donne (e del loro insegnamento spirituale), al pari di quello degli uomini; e non è poco. Indice di nuovo di quella libertà del deserto che in questo come in altri ambiti è riuscita a imporsi anche sui codici culturali predominanti.

Accanto ai padri e alle madri il mondo dei Detti attesta la presenza di molte altre figure che rappresentano “l’alterità” rispetto alla condizione monastica: laici, filosofi, eretici, manichei, sacerdoti pagani... Daniel Lemeni ci ha mostrato che la spiritualità del deserto è profondamente connessa con la disponibilità a relazionarsi con chiunque, in spirito di apertura, mitezza e tolleranza, anche se tale tolleranza è diversa da ciò che noi intendiamo con questa parola; non implica relativismo, ma è essenzialmente accoglienza della diversità in spirito di amore e di umiltà. Ciò che è davvero notevole, in questo confronto con il “diverso”, è la disponibilità dei padri del deserto a imparare realmente dagli altri, dai non-monaci, dai semplici laici che nel mondo vivono una vita apparentemente ordinaria. Sono molti infatti i detti che, seguendo un identico schema, mostrano la consapevolezza che questi monaci avevano di non possedere il monopolio della santità, perché ogni volta che erano tentati di pensarlo, veniva ricordato loro, per divina ispirazione, che anche un semplice ciabattino di Alessandria, o un medico, o un fruttivendolo o una coppia di sposi, o due semplici donne potevano raggiungere le vette di un monaco del deserto come Antonio o Macario, o perfino superarle11. Queste storie con ogni probabilità più che una lezione per i laici intendevano essere un promemoria pedagogico per gli stessi monaci che leggevano i Detti, affinché custodissero l’umiltà e il senso del limite nella loro vocazione. Anche qui la sapienza dei Detti consiste nell’introdurre dubbi laddove qualcuno è tentato di possedere certezze.

Le relazioni della sessione di questa mattina sono state dedicate a quella che, con espressione forse abusata, potremmo chiamare l’attualità dei Detti, ovvero la loro rilevanza per gli uomini e le donne di oggi. Abuna Markos di San Macario ci ha offerto innanzitutto il raro privilegio di ascoltare - questa volta sì, “in presa diretta” - la voce dei “padri del deserto” di oggi. Con la precisione dello studioso e la sensibilità spirituale del monaco, non senza un po’ di quell’ironia che è così tipica dei Detti, ci ha mostrato il ruolo che questi testi continuano a svolgere nella vita di un monastero egiziano dei nostri giorni: quali Detti vengono letti, come vengono letti e attraverso quali canali vengono trasmessi continuamente. Ha sottolineato lo spazio rilevante che tuttora essi svolgono nel quadro della formazione monastica, ciò che conferma la loro natura originariamente pedagogica già più volte rilevata in questi giorni. Mi sembra soprattutto notevole quanto ci ha detto sul legame intimo tra Scrittura e Detti che resta tuttora vivo nella consapevolezza dei monaci, e sulla paternità spirituale come luogo ermeneutico fondamentale che permette di trasmettere questi Detti in modo personale, di spiegarli, interpretarli, e quindi di tenerli vivi nello Spirito santo, senza assolutizzarne in modo fondamentalistico il contenuto letterale. Accanto a quest’ampia valorizzazione positiva p. Markos non ha mancato di far emergere con onestà le resistenze nei confronti di questo patrimonio spirituale, resistenze che in parte sono attribuibili a fraintendimenti, in parte sono il segnale di una crisi più generale della paternità spirituale e della vita monastica, su cui occorre interrogarsi (e qui cogliamo consonanze con quanto già faceva emergere p. Agapie nella sua relazione).

Il nostro percorso si è concluso con la relazione del metropolita Job di Pisidia, che, con l’autorevolezza di un vescovo, ha mostrato come questi testi, al di là dell’ambito della vita monastica, siano ancora capaci di parlare a tutti i cristiani, e forse non solo a loro. Egli ha indagato le ragioni del loro enorme successo editoriale degli ultimi decenni, sottolineando in particolare la brevità, il carattere pratico ed esistenziale, il linguaggio vivace e ricco di immagini, talora paradossale e spesso umoristico, ma allo stesso tempo ha messo in luce gli aspetti in cui i Detti sono tuttora capaci di sfidare e mettere in questione il lettore moderno. I Detti non sono infatti testi tranquilli e innocui, scritti per lasciarci là dove siamo, ma testi potenti, per certi versi inquietanti e provocanti, perché, al pari del Vangelo, hanno la capacità di trasformarci e di introdurci su una via di conversione, a condizione che non ne spegniamo la forza e il dinamismo. Essi non parlano solo al nostro presente, ma parlano anche del nostro futuro, della nostra vera immagine a cui siamo chiamati a tendere. La sapienza che ci tramettono, la “sapienza del deserto”, in fondo è una sapienza che agli occhi di una mentalità mondana appare senz’altro follia, come dice l’Apostolo, una follia che appare però profezia di un altro mondo:

Abba Antonio disse: “Verrà un tempo in cui gli uomini impazziranno, e al vedere uno che non sia pazzo, gli si avventeranno contro dicendo: ‘Sei pazzo!’ per il fatto che non è come loro”12.

E vorrei concludere citando un ultimo detto, un gustoso bozzetto in cui emerge l’ottica di un mondo alla rovescia che certo provoca il nostro riso, ma che subito ci spinge anche a chiederci: chi sono i folli? I due anziani che mettono in scena questa situazione ridicola o tutto il resto del mondo, il mondo in cui viviamo, che ogni giorno – e spesso, come sappiamo, con conseguenze drammatiche – trova motivi di litigio o addirittura di guerra per sciocchezze senza valore?

C’erano due anziani che abitavano insieme e non avevano mai litigato. Uno disse all’altro: “Facciamo anche noi una lite come gli uomini!”. E l’altro rispondendo disse: “Non so come avviene una lite”. E quello disse: “Ecco, io metto un mattone nel mezzo e dico che è mio; e tu di’: ‘No, è mio!’, e così si inizia”. Fecero così, e uno di loro disse: “Questo è mio!”. E l’altro disse: “No, è mio!”. E il primo rispose: “Va bene, è tuo: prendilo e va’”. E si ritirarono senza aver trovato il modo di litigare tra di loro13.


1 Cf. Alf., Felice 1 (= Sist. III,36). Cf. anche Sist. XIV,3, dove l’obbedienza del discepolo diventa la chiave di accesso alla “parola di Dio” trasmessa dall’anziano, che dice di lui: “Costui viene ad ascoltare una parola a causa di Dio … e qualunque cosa gli dica, egli la compie con zelo. Per questo anch’io gli annuncio la parola di Dio”.
2 Cf. ad esempio Sist. XXI,9.
3Alf., Nisteroo 2 (= Sist. I,18).
4 Cf. Alf., Giuseppe di Panefisi 2 (= Sist. IX,8).
5 Cf. Alf., Arsenio 38, dove il dilemma emerge in modo esplicito: “Uno dei padri pregò Dio dicendo: Signore, mostrami [il senso di] questo fatto: uno fugge [gli uomini] a motivo del tuo nome, l’altro a motivo del tuo nome li abbraccia!”.
6 Cf. Sist. XVII,31.
7 Cf. Doroteo di Gaza, Insegnamenti VI,78.
8 Cf. Alf. Giuseppe di Panefisi 7 (= Sist. XII,9).
9 Cf. Sist. V,2-5; 11.
10 J. Chryssavgis, La spiritualità dei padri e delle madri del deserto, Qiqajon, Magnano 2004, p. 39.
11 Cf. ad esempio Alf., Antonio 24 (= Sist. XVIII,1); Anon. N 490.
12Alf. Antonio 25.
13Sist. XVII,26.