“Là giunto, sarò uomo!”

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17 ottobre 2024

Dal Vangelo secondo Giovanni - Gv 12,24-28 (Lezionario di Bose)

In quel tempo Gesù disse:" 24In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. 25Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. 26Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà. 27Adesso l'anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest'ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest'ora! 28Padre, glorifica il tuo nome». Venne allora una voce dal cielo: «L'ho glorificato e lo glorificherò ancora!».


Se ci concediamo il tempo di sostare e osservare lo scorrere delle stagioni nella campagna, non frettolosamente ma con il passo di chi ascolta mentre cammina, molte delle parole dette da Gesù diventeranno ancora più famigliari tingendo di colori la nostra vita come accade ora, in autunno, per le foglie della vite.

Ci apparirà così a poco a poco che le energie del Cristo risorto risuonano nell’annuale scorrere delle stagioni e le analogie che ne discendono possono aiutarci a percepire dei frammenti del mistero di morte e resurrezione nel quale il tutto è celato e custodito. Non a caso Gesù stesso utilizza l’ambiente naturale che lo circonda come vocabolario per la sua narrazione del Regno di Dio.

Con uno sguardo rinnovato potremo così imparare a leggere e comprendere la dinamica narrataci nel vangelo di oggi: la morte non è la fine di tutto ma il passaggio necessario affinché il seme divenga nuovo germe, libero e capace di portare frutto in abbondanza.

La sofferenza del perdere diventa la gioiosa offerta di sé nel dare. Si diventa cioè pienamente umani, liberi di perdere per ritrovare l’abbondanza del centuplo (cf. Mc 10,30), si cresce alla statura di Cristo diventando capaci di donare fino a dare la vita. L’abbondanza del frutto dell’amore è nel dono della vita: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13).

Tutto questo accade non nel clamore ma nel silenzio del grembo della terra, nella quale il chicco di grano è custodito, come accade per ogni essere umano che nel grembo della madre trova lo spazio e il tempo necessario per poi affacciarsi alla vita.

Il frutto del seme caduto in terra diviene pane e alimento per rinnovare le energie necessarie per servire Gesù e mettersi alla sua sequela come discepoli.

Ignazio di Antiochia, di cui oggi facciamo memoria, ha fatto un’esegesi vivente di queste parole. Nel suo viaggio verso Roma dove lo attendeva l’esecuzione della condanna a morte, scrive ai cristiani di quella città perché non impediscano il suo martirio: «Lasciatemi essere pasto delle belve: sono frumento di Dio macinato dai loro denti per diventare puro pane di Cristo» (Ai Romani 4,1). Egli concepisce la sua morte come un parto: «Bello per me morire in Gesù Cristo. Lui cerco, che per noi è morto; lui voglio, che per noi è risorto. Il parto per me è vicino» (Ai Romani 6,1).

Con straordinaria intuizione di antropologia cristiana, Ignazio specifica in che cosa consiste il parto della morte attraverso il martirio, cioè seguendo Gesù fino a perdere la propria vita e ad essere là dove lui stesso è stato: «Non impeditemi di vivere, né vogliate il mio morire. Lasciatemi ricevere la pura luce. Là giunto, sarò uomo!» (Ai Romani 6,2). Per Ignazio Gesù è il “nuovo uomo” (Agli Efesini 20,1), “il perfetto uomo” (Agli Smirnesi 4,2): ormai vicino al martirio, egli afferma che sta per diventare pienamente uomo grazie all’uomo nuovo e perfetto che è Gesù

Come scrive uno studioso: per Ignazio di Antiochia “Dio si è fatto l’uomo perfetto perché l’uomo impari a diventare uomo in lui. Non è richiesta alcuna fuga dall’umano, ma anzi si tratta di portare alla pienezza dell’unità l’Uomo, senza rifiutare la sua umanità, perché essa non viene mai annullata, ma unificata in Dio” (Ferdinando Bergamelli).

fratel Michele