Una parola per noi o per gli “altri”?
18 febbraio 2025
Dal Vangelo secondo Matteo - Mt 13,10-17 (Lezionario di Bose)
In quel tempo 10si avvicinarono i discepoli dissero a Gesù: «Perché a loro parli con parabole?». 11Egli rispose loro: «Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. 12Infatti a colui che ha, verrà dato e sarà nell'abbondanza; ma a colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha. 13Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono. 14Così si compie per loro la profezia di Isaia che dice:
Udrete, sì, ma non comprenderete,
guarderete, sì, ma non vedrete.
15Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile,
sono diventati duri di orecchi
e hanno chiuso gli occhi,
perché non vedano con gli occhi,
non ascoltino con gli orecchi
e non comprendano con il cuore
e non si convertano e io li guarisca!
16Beati invece i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano. 17In verità io vi dico: molti profeti e molti giusti hanno desiderato vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono!
Tra la parabola del seminatore (o, meglio, del seme) e la sua spiegazione Matteo pone questo brano che rivela il motivo per cui Gesù usa le parabole nella sua predicazione. Le parabole – così come i sogni, le visioni, i mimi profetici hanno immagini tratte dalla vita e dal lavoro di tutti i giorni: la massaia, il pescatore, l’agricoltore, il falegname, il sarto, il vignaiolo… ma anche la prostituta e gli sfruttatori del suo corpo, attivi e passivi, come pure i potenti abusatori – servono a narrare in termini noti una verità altrettanto reale ma meno visibile.
Le parabole dovrebbero quindi essere di facile interpretazione, non aver bisogno di spiegazioni – un po’ come, mi si passi la banalizzazione, una battuta di spirito –, eppure questa fatica a capire l’allusione celata in ciò che incontriamo ogni giorno è rivelatrice del dato che blocca il nostro cammino di conversione: vediamo solo quello che vogliamo vedere, ascoltiamo solo quando vogliamo ascoltare, afferriamo un concetto solo quando non ci disturba o ci può far comodo. “Quell’uomo sei tu!” dirà il profeta Natan al re Davide, scandalizzato dal racconto del comportamento di un ricco allevatore che aveva preso con la forza e l’inganno l’unica pecora di un pover’uomo (cf. 2Sam 12,1-14).
Così anche noi, quando leggiamo questo brano-ponte, ci identifichiamo subito con i discepoli “cui è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli”, mentre quelli cui Gesù si rivolge in parabole sono gli altri, “loro”. Gli occhi e gli orecchi beati sono ovviamente i nostri: siamo noi che vediamo quello “che molti profeti e molti giusti hanno desiderato vedere e … ascoltare”, senza poterlo vedere né ascoltare.
Ma il paradosso – o, meglio: l’insegnamento che viene da questo brano – è che poi sono i discepoli stessi ad aver bisogno della spiegazione della parabola… I discepoli: quelli che lo sono stati dietro a Gesù sulle strade di Galilea e Giudea e noi, che siamo costantemente chiamati a esserlo in verità. Siamo noi che ogni giorno dobbiamo scegliere se leggere la realtà quotidiana circostante con gli occhi della fede o con la diffidenza di chi crede che siano gli altri a non capire, se cercare nella parola di Dio il cammino di pentimento o la scusa alla nostra inossidabile presunzione.
Insomma, la dura profezia di Isaia è per noi o per gli altri? È per gli altri o per noi l’amorosa pazienza di Gesù, che prima tratteggia un’elementare immagine di lavoro nei campi di Galilea e poi deve scomporla per farci capire che il campo di cui stava parlando è il nostro cuore? È per gli altri o per noi l’appello a comprendere con il cuore e a convertirci? È per gli altri o per noi la promessa della guarigione che scenderà dalle ferite del Crocifisso? “Per le sue piaghe noi siamo guariti” (Is 53,5).
Fratel Guido