La luce, forma divina

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6 agosto 2021

Omelia per la Trasfigurazione
Mc 9,1-10
di Luciano Manicardi

In quel tempo 1 Gesù diceva ai suoi discepoli: «In verità io vi dico: vi sono alcuni, qui presenti, che non morranno prima di aver visto giungere il regno di Dio nella sua potenza». 2Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro 3e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. 4E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. 5Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». 6Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. 7Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l'amato: ascoltatelo!». 8E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro.9Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell'uomo fosse risorto dai morti. 10Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti.


Cari fratelli e sorelle, amici e ospiti, vescovo Corrado,

in questa sera noi accogliamo e celebriamo con gioia la radiosa festa delle Trasfigurazione del Signore. La Trasfigurazione, l’evento in cui Dio stesso, il padre delle luci, colui che abita una luce inaccessibile, il Dio che è luce (Sal 27,1), ha mostrato che la sua luce abita il volto e il corpo di Gesù, illumina il suo parlare e il suo amare, orienta il suo camminare e il suo agire, pervade la sua umanità. La luce inaccessibile si è fatta accessibile in Gesù e noi siamo chiamati all’opera, al lavoro della contemplazione, a rinnovare lo stupore per ciò che è avvenuto sul monte Tabor, che è caparra e promessa del nostro stesso cammino e della destinazione delle nostre vite. Noi siamo destinati alla luce, chiamati alla luce, invitati alla luce, impegnati a riflettere nella nostra carne e nel nostro spirito la luce divina che risplende sul volto di Cristo. E sappiamo bene che solo per fede possiamo farci abitare da questa luce, sappiamo bene che questa luce ha il nome dell’amore (“chi ama il proprio fratello rimane nella luce”: 1Gv 2,10), sappiamo bene che questa luce diviene speranza, fiducia nel futuro. Celebrare la Trasfigurazione è compiere un atto di fede, speranza e carità. È un atto di sintesi dell’intera nostra vita, come lo è stato per Gesù, un atto che ha confermato il suo cammino portandolo ad assumere le difficoltà e le tribolazioni presenti e a volgersi con risolutezza, con fede, con amore e con speranza, verso l’avvenire, un avvenire che comportava anche ignominia e morte violenta. Nel terzo vangelo, Luca pone la decisione risoluta di Gesù di dirigersi verso Gerusalemme dove si sarebbe compiuto il suo destino di morte e resurrezione (Lc 9,51ss.), poco dopo la trasfigurazione (Lc 9,28-36).

Ma ascoltiamo ancora una volta la narrazione che Marco ci consegna dell’evento della Trasfigurazione. Evento che, nello svolgimento narrativo del secondo vangelo sorge inatteso, paradossale, quasi come un ossimoro. Narrativamente è spiazzante. Gesù ha appena annunciato la sua passione, la sua sofferenza, la sua morte violenta e la sua resurrezione, incontrando l’incomprensione e il rigetto da parte di Pietro (Mc 8,31-33) e subito dopo ha esteso il cammino di sofferenza e assunzione di croce a chiunque lo voglia seguire (Mc 8,34-38), ed ecco la rivelazione luminosa che evidenzia Gesù come inviato e rivelatore del Padre, ecco la voce del Padre che proclama il suo sì su Gesù - “il Figlio mio, l’amato” - dice la voce celeste, ecco il sigillo che Dio pone su Gesù, ed ecco la sua autorevolezza attestata dalla voce dall’alto rivolta ai discepoli e a tutti noi: “Ascoltatelo”. Ma forse, questa dimensione di scandalo, di inatteso, di paradosso, dice più qualcosa della nostra fede e della nostra comprensione che non della narrazione evangelica stessa. In fondo ciò che spiazza non dovrebbe essere che dopo l’annuncio del futuro doloroso e tragico ora vi sia la manifestazione della divinità che abita in Gesù. Ciò che dovrebbe sconcertarci e colpirci è che l’annuncio che Gesù fa non è semplicemente, come si ostinano a ripetere anche i titoli della Bibbia italiana, “il primo (o secondo o terzo) annuncio della passione” sottolineando solo e soltanto la dimensione dolorosa, ma è sempre annuncio della passione, della morte e della resurrezione (Mc 8,31; 9,31; 10,34). Questo è l’elemento sconcertante. Questo annuncio ripetuto tre volte da Gesù stesso, “dopo tre giorni risorgerà”, ci fa entrare al cuore della fede di Gesù, della sua vita con Dio, ci fa vedere la luce interiore che guida Gesù e lo guida anche mentre cammina fra contraddizioni, inimicizie e ostilità, ci fa toccare con mano la convinzione profonda che gli dona forza e gli consente di andare avanti con determinazione anche in mezzo a grande tribolazione. La Trasfigurazione è anche il sì di Dio sulla fede di Gesù, fede che è luce nelle tenebre, fede che crede la resurrezione anche quando il presente non offre nell’oggi e non promette per il domani nient’altro che dolore e morte. In fondo non è sconcertante che ci siano dolore e sofferenza, odio e violenza, ma che ci sia resurrezione. Non è sconcertante che Gesù sia accolto da ostilità e inimicizie e avversione e calunnie, ma che creda che nonostante e proprio attraverso tutto questo passa il cammino verso il Padre, passa il regnare di Dio su di lui. E la trasfigurazione è proprio, come dice Gesù, “il regno di Dio venuto con potenza” (Mc 9,1). E dunque non è sconcertante nemmeno che per noi, che per il credente, vi sia una strada costellata di asperità, di odi e inimicizie, ma che questa strada conduca alla vita, sia cammino di vita, sia vita essa stessa, e sia dunque vivibile nella gioia. Questo è ciò in cui ci conferma la Trasfigurazione. E anche ciò a cui ci sprona, la fede che ci chiede e dunque il cambiamento, la conversione che ci richiede.

Quando Gesù dice, in modo che suona ancora un po’ misterioso e che sarà elucidato solo dal racconto della Trasfigurazione, che “vi sono alcuni qui presenti che non gusteranno la morte senza avere visto il regno di Dio venuto con potenza” (Mc 9,1) riferendosi, come capiamo dal successivo racconto della Trasfigurazione, a Pietro, Giacomo e Giovanni che salgono sul monte insieme a Gesù, egli lega la prospettiva della morte, morte che è la certezza del nostro vivere, la certezza di ogni vivente, alla manifestazione della luce divina in lui in questa stessa vita, in questa sua stessa esistenza, in questo dolore e in questo male che lo accerchiano e lo attendono. Ciò che solo alcuni vedono è tuttavia vero per tutti, anche per chi non ha visto, anche per noi. E come per noi, destinata a noi, è la promessa, la promessa della resurrezione fondata sulla resurrezione di Gesù stesso, come Gesù si premura di dire ai discepoli proibendo loro di narrare la visione a qualcuno “se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti” (Mc 9,9), così per noi, destinato a noi è anche il comando: “Ascoltatelo” (Mc 9,7). Non abbiamo visto ma possiamo ascoltare, ascoltare la testimonianza di chi ha visto, come ricorda Pietro nella sua seconda lettera quando ricorda di essere stato testimone oculare della grandezza di Cristo e di aver udito la voce divina proclamare “Questi è il mio Figlio, l’amato” (cf. 2Pt 1,16-18), e possiamo ascoltare la Scrittura che, come appare da Elia e Mosè sul monte, ci parla di Cristo, del suo esodo, della sua morte e resurrezione, della sua Pasqua. Le Scritture ci insegnano a tenere insieme sofferenza e gloria, a non lasciarci scandalizzare dalla prima e a non lasciarci ammaliare dalla seconda fino a volerla isolare e assolutizzare. Solo nel loro insieme esse disegnano il camino reale del credente nella storia.

Ecco dunque che Gesù, con tre discepoli, sale su un alto monte, ovvero su un tipico luogo biblico di rivelazione, e qui Gesù “fu trasfigurato”, con un passivo che indica l’azione divina. Ciò che avviene non nasce dalla terra, ma viene dal cielo. Marco esprime questa verità in maniera un po’ maldestra, indicando che il biancore splendente che si palesa sulle vesti di Gesù è tale che “nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche” (Mc 9,3). Marco non dice che Gesù stia pregando, come fa Luca nel racconto parallelo (Lc 9,28-29), tuttavia ciò che accade ricorda quanto avvenuto a Mosè quando, salito sul monte Sinai per ricevere per la seconda volta le tavole della Legge, ne discese con la pelle del volto divenuta raggiante perché, specifica il narratore biblico, “aveva conversato con Dio” (Es 34,29). Ciò che è avvenuto, espresso narrativamente con il divenire splendenti delle vesti, che sempre sono rinvio all’identità della persona, è opera divina, opera di quel Dio che, scriveva Bernardo di Chiaravalle, è “volto senza forma che dà forma e trasforma”. E la forma divina è luminosità. La forma divina è la luce. E questa luce ora anche i discepoli vedono che abita in Gesù, è Gesù. E la luce si trasfonde in chi vi si espone, in chi la contempla. Qui, la trasfigurazione di Gesù, che avviene, dice Marco, davanti ai discepoli (“Gesù fu trasfigurato davanti a loro”: Mc 9,2), diventa esperienza di illuminazione per loro, almeno per un momento, solo per un momento, e in certo modo apre loro gli occhi e i discepoli non solo vedono le vesti bianche e luminose di Gesù, ma anche Elia e Mosè che conversavano con lui. Ed ecco che Pietro, che poco prima aveva rimproverato aspramente Gesù di fronte alle sue parole sulla passione e morte, ora estasiato nella beatitudine dell’esperienza spirituale, proclama la bellezza di ciò che vede e di ciò a cui assiste. Pietro si fa portare dall’entusiasmo, ma il commento dell’evangelista afferma che Pietro non sapeva che dire, non sapeva come rispondere all’evento, resta interdetto, e ciò che pronuncia ha la consistenza di un soffio, di un niente, di una reazione, appunto, più emotiva ed epidermica che profonda. È solo l’effetto della paura: “infatti erano spaventati”, commenta Marco. Erano preda della paura, ne erano ostaggi. La paura cattura, si impossessa, impedisce di ragionare, di essere in noi stessi. Due reazioni differenti dunque, quelle di Pietro, la prima di rigetto, la seconda di entusiasmo, ma entrambe inadeguate, immediate, non riflesse. Entrambe dicono una maniera di rapportarsi alla realtà superficiale, parziale e soggettiva, incapace di tenere insieme ciò che deve essere tenuto insieme. Come va tenuta insieme la fede nella resurrezione con un cammino che comporta sofferenza, dolore e morte. Come va vissuta la fede nella resurrezione mentre si vivono esperienze di morte. Concrete esperienze di morte durante la vita. Solo allora la fede nella resurrezione non è mera formula teologica, ma vita, esistenza, prassi.

Questo ci chiede la trasfigurazione: tenere insieme la fede nella resurrezione all’interno di cammini disseminati di sofferenze e contraddizioni, di inimicizie e ostilità, di comportamenti incomprensibili e irricevibili. Non di questo c’è da stupirsi o da scandalizzarsi. Pietro, il testimone oculare della trasfigurazione, lo dice nella sua prima lettera: “Non meravigliatevi della persecuzione che, come un incendio, è scoppiata contro di voi, come se vi accadesse qualcosa di strano” (1Pt 4,12). Tenere insieme la speranza della resurrezione mentre si vivono situazioni di morte. Questo ci chiede la Trasfigurazione. Come suggerisce la finale del racconto di Marco, i discepoli che scendono dal monte sono chiamati a tenere insieme queste dimensioni, vedendo ormai Gesù solo. Il solo Gesù. Vedendo Gesù come l’avevano sempre visto anche prima. Il Gesù le cui vesti non sono luminose, che non conversa con Elia e Mosè, che non è accompagnato da una voce dal cielo che ne proclama l’autorità ed esige che sia ascoltato. Il Gesù che nasconde e rivela la luce divina nella sua prassi di umanità, nel suo camminare tra gli uomini, nel suo attraversare le sofferenze e le umiliazioni continuando a credere la resurrezione. A sperare la resurrezione. A vivere la resurrezione amando. Lì la luce. La luce della resurrezione. La luce dell’amore.