Conversione come attesa

Lee Ufan, Tea in the Field, 2023 © Lee Ufan by SIAE 2023, Courtesy of the Studio Lee Ufan. Installation view, Icônes, 2023, Punta della Dogana, Venezia. Ph. Marco Cappelletti e Filippo Rossi © Palazzo Grassi, Pinault Collection
Lee Ufan, Tea in the Field, 2023 © Lee Ufan by SIAE 2023, Courtesy of the Studio Lee Ufan. Installation view, Icônes, 2023, Punta della Dogana, Venezia. Ph. Marco Cappelletti e Filippo Rossi © Palazzo Grassi, Pinault Collection

10 dicembre 2023

Mc 1,1-8
II Domenica di Avvento
di Sabino Chialà

1 Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio.

2Come sta scritto nel profeta Isaia:

Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero:
egli preparerà la tua via.
3Voce di uno che grida nel deserto:
Preparate la via del Signore,
raddrizzate i suoi sentieri

4vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati. 5Accorrevano a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati. 6Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, e mangiava cavallette e miele selvatico.  7E proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. 8Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo».


La prima domenica d’Avvento ci ha parlato di vigilanza, necessaria a cogliere, nell’orizzonte che ci sta davanti, quell’evento che può ridare senso alla nostra vita, all’oggi cui siamo chiamati, non trascurando l’autorità, cioè l’opera, affidata a ciascuno.

In questo orizzonte, ecco apparire una voce, che viene dal passato e che rimanda al futuro: la voce del Battista, che dà carne alla promessa fatta dal profeta Isaia e che rimanda alla venuta del Messia.

La figura di Giovanni, Battista e Precursore di Gesù, che ci accompagnerà in questa seconda domenica di Avvento e nella prossima, è una figura di passaggio. Che apre in modo dinamico il Vangelo secondo Marco e così indica l’essenza stessa di quella “Buona notizia (euanghélion) di Gesù, Cristo, Figlio di Dio” (v. 1). Egli viene da altrove, il suo ministero è quello che altri gli hanno affidato, cioè la parola profetica; e rimanda all’oltre, a colui che “viene dopo/dietro” a lui ed è “più forte” di lui (v. 7).

Giovanni non indugia su di sé; è una figura leggera, che non si impone, che distoglie gli sguardi da sé per indirizzarli al Cristo. È solo “voce” prestata alla “parola” di cui parla il prologo del quarto Vangelo. E anche quella voce non è sua, ma l’ha ricevuta dalle Scritture, l’ha riconosciuta meditando la profezia di Isaia. Giovanni riconosce la sua vocazione nella Scrittura e la adempie proiettandosi verso il Cristo veniente.

Anche il luogo in cui Giovanni fa la sua prima comparsa dice transitorietà: il deserto, luogo inospitale dove è difficile dimorare a lungo, luogo dell’essenzialità, come mostra anche il suo abbigliamento e il suo nutrimento (v. 6). Luogo in cui è possibile scendere in profondità in se stessi e nel senso del proprio cammino.

Qui, nel deserto, Giovanni incontra le folle che accorrono a lui da ogni dove (v. 5). Qui fa un gesto che dice innanzitutto rinascita: un’immersione, un battesimo, “di conversione (metánoia) per il perdono dei peccati” (v. 4). Non sfugge il contrasto tra il deserto e l’acqua necessaria all’immersione. C’è come un urto dal quale può sgorgare quella nuova vita che la conversione realizza. Urto tra la solitudine del deserto e la fecondità che l’acqua rende possibile. L’incontro di queste due realtà genera il frutto: una conversione che toglie di dosso il peso del peccato.

Conversione e peccato sono parole desuete, che forse ripetiamo senza più renderci conto di quello che diciamo. O che forse evitiamo, per imbarazzo. Eppure rimandano a qualcosa di essenziale – e non solo per la vita di fede! - e che dunque abbiamo bisogno di riscoprire.

La conversione dice cambiamento di sguardo, trasformazione della mente, secondo il significato etimologico del termine greco metánoia. Prima che “agire diversamente”, significa “riorientare lo sguardo interiore”, vedere altrimenti se stessi, gli altri, il mondo, e anche Dio. Il peccato, invece, dal quale Giovanni proclama la liberazione, è tutto ciò che offende noi stessi e gli altri, prima che offendere Dio. Anzi: offende Dio, perché offende noi stessi e gli altri.

Ecco la rinascita che Giovanni annuncia nel deserto, immergendo nell’acqua del battesimo. A questo annuncio, dice Marco, “accorrevano” e “si facevano battezzare”, “confessando i loro peccati” (v. 5). La parola di Giovanni, dinamica essa stessa, crea poi movimento in chi la ascolta, perché capace di toccare corde vitali, di intercettare i bisogni reali degli uomini e delle donne del suo tempo: il loro desiderio di pienezza, di pace, di felicità. Per questo sono disposti a: correre, verso il Battista; scendere, nell’acqua; e confessare, i peccati. Corrono verso la parola profetica di cui Giovanni si fa voce; si lasciano immergere nell’acqua battesimale, aprono il loro cuore, deponendo i pesi che vi custodiscono.

Questo prepara “la via al Signore”, come dice il profeta all’inizio del brano (v. 3), all’avvento di colui che Giovanni riconosce “più forte” di lui (v. 7) e che verrà a battezzare “in Spirito santo” (v. 8). Che porterà a compimento l’opera di rinascita, apponendo il sigillo dello Spirito su quel cammino che il Battista ha aperto. Il deserto, il luogo inospitale, diventa così luogo in cui agisce il Soffio della vita.

Oggi la figura del Battista ci invita, dunque, a cogliere nella conversione un altro volto dell’attesa del Signore. Se il messaggio della prima domenica era quello dell’attesa come responsabilità nel presente, in questa seconda domenica siamo richiamati alla conversione, come altra forma dell’attesa. Conversione da vivere nel presente, come capacità di cambiare sguardo, riconoscendo il proprio peccato, lasciandolo scorrere nelle acque della rigenerazione preparate nel deserto per noi, e attendendo il sigillo dello Spirito, che viene a confermare il dono di vita che il Signore desidera offrirci.


Aprire un sentiero non battuto

Lee Ufan, Tea in the Field, 2023 © Lee Ufan by SIAE 2023, Courtesy of the Studio Lee Ufan. Installation view, Icônes, 2023, Punta della Dogana, Venezia. Ph. Marco Cappelletti e Filippo Rossi © Palazzo Grassi, Pinault Collection
Lee Ufan, Tea in the Field, 2023 © Lee Ufan by SIAE 2023, Courtesy of the Studio Lee Ufan. Installation view, Icônes, 2023, Punta della Dogana, Venezia. Ph. Marco Cappelletti e Filippo Rossi © Palazzo Grassi, Pinault Collection
 In una delle sale di Punta della Dogana, Lee Ufan, artista che vive tra Corea del sud, Giappone e Francia, inserisce una sala da tè molto particolare.

A terra c’è della ghiaia, possiamo sentire il rumore dei nostri passi mentre percorriamo la stanza e ci avviciniamo al cuore dell’installazione che è a sua volta una stanza. 

La sala da tè nella quale ci invita Lee Ufan ha le pareti tradizionali di carta di riso. C’è subito una particolarità che ci salta all’occhio: le pareti si sono consumate, ne restano soltanto le parti più addossate alle giunture. Cosa è successo?

Lee Ufan ha voluto mettere in relazione un materiale che viene dall’estremo oriente con un ambiente a lui non congeniale: quello della laguna veneziana.

L’umidità ha consumato le pareti di carta di riso, rendendo visibile l’interno della sala.

Il passaggio del tempo ci ha reso visibile qualcosa che prima ci era nascosto. Se guardiamo bene le pareti ci rendiamo conto che la sala da tè non aveva porte di ingresso, l’unico modo che abbiamo per entrare in contatto con il suo interno è stato permettere al tempo e all’umidità di fare il loro lavoro.

Giovanni è colui che afferma: “Lui deve crescere; io, invece, diminuire” (Gv 3,30). Lee Ufan propone all’osservatore un atto impegnativo, diminuire per permettere a qualcos’altro di emergere. Aprire una breccia per quello che deve arrivare. Diventare la membrana attraverso la quale passare per raggiungere qualcos’altro. La sala da tè è il luogo dove si ricevono gli ospiti, un luogo di intimità, nell’intimo di Giovanni c’è l’attesa del Cristo, nell’intimo di questa sala c’è una pietra salda.

Nella sua sua pratica artistica Lee Ufan pone il concetto di «risonanza» (yohaku). Afferma: «Lo spazio di risonanza non è il vuoto. È un campo di forze aperto dove l'azione, le cose e lo spazio risuonano. È la lotta tra creare o non creare; è il mondo di una specie di contraddizione ricca di cambiamento e suggestione. Lo spazio di risonanza supera quindi l'oggetto o le parole; fa respirare agli uomini l'infinito, conducendoli al silenzio». 

Chi può insegnarci e indicarci questo concetto di risonanza se non Giovanni, la voce che grida nel deserto?

Le pareti che si sciolgono lasciano lo spazio visivo per la pietra che si trova al centro. Un elemento simbolico di saldezza, stabilità, una pietra angolare (cf. 1 Pietro 2,4-6).

Ecco Gesù che prende posto all’interno dell’intimità della stanza, Giovanni se ne è fatto custode fino a diminuire, per essere colui che ci apre una strada, una breccia nelle pareti della sua storia personale e della storia di tutta l'umanità.

Un grande ringraziamento alla Pinault Collection della sede di Punta della Dogana a Venezia per averci concesso l’utilizzo delle immagini della mostra “Icônes” che si è conclusa il 26 novembre di quest’anno.


Ascolta la seconda traccia del podcast A Oriente - tracce di preghiera per l'Avvento

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