Lo straordinario nell’ordinario
12 gennaio 2025
II domenica nell’anno
Giovanni 2,1-12 (Is 62,1-5)
di Luciano Manicardi
1 Il terzo giorno vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c'era la madre di Gesù. 2Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. 3Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». 4E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». 5Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela».
6Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. 7E Gesù disse loro: «Riempite d'acqua le anfore»; e le riempirono fino all'orlo. 8Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono. 9Come ebbe assaggiato l'acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto - il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l'acqua - chiamò lo sposo 10e gli disse: «Tutti mettono in tavola il vino buono all'inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora».
11Questo, a Cana di Galilea, fu l'inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.
12Dopo questo fatto scese a Cafàrnao, insieme a sua madre, ai suoi fratelli e ai suoi discepoli. Là rimasero pochi giorni.
Prima lettura (Is 62,1-5) e vangelo (Gv 2,1-12) presentano la simbolica nuziale quale cifra dell’incontro tra Dio e l’umanità. In particolare, la celebrazione delle nozze è immagine che allude all’alleanza tra Dio e il suo popolo. Il testo evangelico non è un resoconto cronachistico e non è neppure riducibile a semplice racconto di miracolo, ma è una narrazione simbolica con significati cristologici e teologici significativi che ruotano attorno alla dinamica di continuità e novità dell’alleanza.
Il contesto in cui si colloca il testo profetico di Is 62,1-5 è quello della “rinascita” di Gerusalemme dopo le fine della deportazione babilonese. Rinascita in realtà auspicata, desiderata, profetizzata nella forma di un nuovo esodo (cf. Is 43,16-21), ma realizzata solo parzialmente e in maniera molto deludente: parecchi figli d’Israele avevano preferito restare in terra babilonese dove avevano ormai avviato una nuova vita, sposandosi, avendo una casa, trovando un lavoro, e non avevano certo intenzione di precipitare di nuovo in una situazione di incertezza e densa di incognite affrontando un ritorno pieno di rischi e criticità. Ecco dunque che il profeta decide di non tacere, di alzare la voce e di non risparmiarsi, quasi per costringere l’aurora a spuntare, per spingere il sole a sorgere e affrettare così un’alba per la città di Gerusalemme, un’alba che significhi un nuovo giorno finalmente di giustizia e di salvezza (62,1). Giustizia e salvezza che consistono nel ricongiungimento della sposa-Gerusalemme con il Signore-suo sposo e nel ricongiungimento con i suoi figli che finalmente ritornano dalla deportazione (62,5). Questo evento diverrà anche testimonianza per tutti i popoli che vedranno la gloria di Gerusalemme, nuovamente illuminata dalla luce e dall’amore del Signore così che nessuno la potrà più chiamare “abbandonata” o “desolata”, ma “sposata”, donna-città in cui Dio pone il suo compiacimento e trova la sua gioia (62,3-4).
Un elemento interessante che emerge dal testo è l’immagine di Dio come amante gioioso, come giovane innamorato che sposa la donna che ama: “come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te” (62,5). La storia del popolo, e dunque della sposa-Gerusalemme, è stata travagliata e ha conosciuto allontanamenti, tradimenti, fatiche, ma qui il profeta afferma che ciò che sta per avvenire non è tanto una riconciliazione dopo un periodo di crisi e di lontananza, ma è qualcosa di nuovo, di inaugurale, come è inaugurale, nuovo e traboccante di bellezza e di promessa di inebriante felicità il giorno delle nozze, quello che il Cantico dei Cantici definisce “il giorno della gioia del cuore” (Ct 3,11). Il testo “parla di giovani che si sposano, non di adulti che si riconciliano” (Alonso-Schökel) e se ci si riferisce al passato e alla situazione di abbandono e desolazione che Gerusalemme ha vissuto è solo per mettere ancor più in risalto la novità e la freschezza dell’evento annunciato dal profeta. Le immagini dicono la capacità di rinnovamento e ringiovanimento dell’amore. L’amore è forza creatrice, leggerezza che rende giovani, luce che dona gioia, bellezza che promette felicità. Alla gioia di Dio, descritta con toni esuberanti come in Sof 3,17, corrisponde la gioia di Gerusalemme che può riabbracciare il Signore-suo sposo e anche i suoi figli. Gerusalemme ritrova la sua dimensione sia coniugale che materna.
Il messaggio è somigliante a quello di Is 54,1-8 in cui a Gerusalemme è promessa una moltitudine di figli e il ricongiungimento con lo sposo. Qui però è opportuna un’annotazione di tipo testuale circa il v. 5 perché il lettore resterà certamente sbalordito al sentire che “come un giovane sposa una vergine, così ti sposeranno i tuoi figli” (traduzione CEI). Se la prima immagine (un giovane che sposa una vergine) è ben in contesto, altrettanto non si può dire della seconda. Per questo il testo ebraico, che parla inequivocabilmente di “tuoi figli”, è stato corretto per via congetturale in “il tuo costruttore”, cioè Dio stesso, risolvendo così l’imbarazzante immagine di figli che sposano la madre. Tuttavia, si può mantenere il senso di “tuoi figli”, ma accordando al verbo di cui essi sono soggetto non il senso di “sposare”, bensì quello di “prendere con sé”. Ovvero, i tuoi figli – Gerusalemme – ti assicureranno protezione, cura, assistenza, ti saranno vicini, ti prenderanno con sé. È interessante, a questo punto ricordare l’ipotesa avanzata da qualche studioso, che cioè il testo di Is 62,5, letto con questo significato, costituisca il sottofondo veterotestamentario di Gv 19,27, dove il discepolo amato prende con sé la madre di Gesù dopo che dalla croce Gesù aveva rivolto a Maria le parole “Donna, ecco tuo figlio” e al discepolo amato: “Ecco tua madre” (Gv 19,26-27).
Il rimando alla scena della croce dove è presente Maria è significativo perché ci consente di passare al brano evangelico odierno che nell’episodio delle nozze di Cana vede anche lì la presenza della madre di Gesù e la mostra quale simbolo dell’Israele fedele da cui viene il Messia, dunque la salvezza (“La salvezza viene dai Giudei”: Gv 4,22). Sotto la croce Maria ritrova simbolicamente nel discepolo che Gesù le affida come figlio, il suo stesso Figlio che vive in coloro che lo confessano risorto e credono in lui. Ovvero, in quella comunità cristiana che dovrà sempre guardare a Israele come a una madre.
Il passo evangelico si apre (vv. 1-2) elencando le circostanze di tempo (il terzo giorno), di luogo (Cana di Galilea), di azione (le nozze), e di persone (Maria, Gesù e i suoi discepoli) in cui si svolge la scena. L’evento è uno sposalizio, un evento dunque comune, attinente alla quotidianità, all’ordinario dipanarsi delle vicende umane. Ed è in questo contesto così ordinario che Gesù “manifestò la sua gloria” (Gv 2,11). Il luogo dello straordinario è l’ordinario; il manifestarsi del divino avviene nell’umano; la gloria di Dio si esprime, dirà l’intero IV vangelo, nell’amore. E quale migliore espressione della vitalità dell’amore che uno sposalizio? La partecipazione di Gesù a un banchetto nuziale diviene “l’inizio dei segni”: questa annotazione fornisce una chiave per leggere quanto avvenuto a Cana, ma più estesamente per rapportarsi alla realtà nello spazio della fede. La realtà viene risignificata, assume un valore ulteriore non esauribile nella fatticità degli eventi, nella materialità delle cose, nel senso letterale delle parole. Così, “il terzo giorno” diviene riferimento all’alleanza sinaitica avvenuta “il terzo giorno” (Es 19,10-11.16) e profezia della resurrezione che avverrà “il terzo giorno” (1Cor 15,4); l’immagine delle nozze (gámos: vv. 1.2) evoca l’alleanza tra Dio e l’uomo (Os 1-3; Ger 2; Ez 16; Is 54,4-8; 61,10; 62,4-5); le sei (numero che denota imperfezione e incompiutezza) giare di pietra (come di pietra erano le tavole su cui era scolpita la legge mosaica), vuote, estremamente capienti e di fatto inamovibili, destinate alla purificazione dei Giudei, diventano segno dell’antica alleanza che Gesù rinnova con quel vino buono che è riferimento ai beni messianici (Is 25,6). La realtà è più della realtà: questo significa l’approccio simbolico al reale. Ecco allora che anche la presenza di Maria a Cana, che il testo sottolinea essere precedente l’arrivo di Gesù stesso e dei suoi discepoli (vv. 1-2), diviene riferimento all’Israele che attende il Messia, alla Figlia di Sion chiamata a riconoscere il compimento dell’alleanza e l’instaurazione del tempo messianico. Così, le sue parole a Gesù (“Non hanno più vino”: Gv 2,3) non sono una richiesta di miracolo e le sue parole ai servi (“Qualunque cosa vi dica, fatela”: Gv 2,) non sono una mediazione, ma semplicemente mostrano Maria nella sua totale disponibilità all’obbedienza quale figura dell’Israele che accoglie le condizioni ancora sconosciute della nuova e definitiva alleanza che Dio stringe in Gesù il Messia. In filigrana si può vedere il riferimento al passo di Es 24,7 e alle parole del popolo al momento della conclusione dell’alleanza sinaitica: “Quanto il Signore ha detto, noi lo faremo e lo ascolteremo”. L’acqua divenuta vino, e il vino “buono” tenuto in serbo “fino ad ora” (2,10), diventano a loro volta rimando simbolico alla storia che Dio, in Cristo, sta scrivendo nella storia umana. Ma il rapporto tra antico e nuovo non è di sostituzione, bensì di novità nella continuità: il Messia ha bisogno delle giare di pietra e dell’acqua per poter offrite il vino buono. Senza quell’acqua non ci sarebbe neppure il vino buono. Si noti poi che Giovanni per designare il vino “buono” usa l’aggettivo kalòs (2,10; lett. “bello”), termine usato altrove nel IV vangelo per indicare il pastore che è Gesù (10,11.14) e le sue opere (10,32-33). Il rimando profondo è ancora alla pienezza del tempo messianico, alla salvezza, all’alleanza nuova. Così come lo è la sovrabbondante quantità di vino che viene servita ormai al termine del banchetto: sei giare “contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri” (2,6) significa qualcosa come circa seicento litri. Ma la profusione, l’eccesso, la sovrabbondanza è il segno dell’agire divino, del Dio che “dà lo Spirito senza misura” (Gv 3,34) del Dio che “così” (Gv 3,13) ha amato il mondo, con l’incomprensibile prodigalità di chi ama al punto di perdere se stesso per amore. Come un amante follemente innamorato della sua amata.