L’appartenenza di Gesù

Foto di Mike Labrum su Unsplash
Foto di Mike Labrum su Unsplash

2 febbraio 2025

Presentazione di Gesù al Tempio
Luca 2,22-40
di Luciano Manicardi

 22Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore - 23come è scritto nella legge del Signore:Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore - 24e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore.
25Ora a Gerusalemme c'era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d'Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. 26Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore. 27Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, 28anch'egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo:

Il cantico di Simeone

29«Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo
vada in pace, secondo la tua parola,
30perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza,
31preparata da te davanti a tutti i popoli:
32luce per rivelarti alle genti
e gloria del tuo popolo, Israele».

33Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. 34Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: «Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione 35- e anche a te una spada trafiggerà l'anima -, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori».

36C'era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuele, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto con il marito sette anni dopo il suo matrimonio, 37era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. 38Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme.

39Quando ebbero adempiuto ogni cosa secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nàzaret. 40Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui.


Poiché in quest’anno 2025 il giorno 2 febbraio, celebrazione della Presentazione di Gesù al Tempio esattamente quaranta giorni dopo Natale, cade di domenica, è questa festa che viene ricordata dalle letture bibliche della liturgia eucaristica e, in particolare, dal brano evangelico di Luca 2,22-40. Dopo le domeniche in cui la liturgia ci ha condotto a contemplare il Gesù che fu battezzato da Giovanni e che, “circa trentenne” (Lc 3,23), iniziò il suo ministero e insegnava con autorevolezza nella sinagoga di Nazaret (Lc 4,16-21), ora siamo ricondotti al Gesù che, ad appena quaranta giorni dalla nascita, viene portato al tempio dai genitori per essere presentato al Signore (cf. Lc 2,22).

Il testo mette discretamente in luce alcuni momenti del processo educativo e di crescita di Gesù (Lc 2,40: “il bambino cresceva e si fortificava”) a cui concorre l’ambiente famigliare, “i suoi genitori” (Lc 2,41) Mirjam e Josef, ma anche il contesto culturale e religioso. Dopo essere stato circonciso a otto giorni dalla nascita (Lc 2,21), viene portato al Tempio di Gerusalemme in occasione della purificazione della madre “secondo la Legge di Mosè” (Lc 2,22; Lv 12,2-4). Luca specifica che i genitori offrono in sacrificio, “come prescrive la Legge del Signore” (Lc 2,24), una coppia di tortore o di giovani colombi: si tratta dell’offerta che fanno i poveri che non possono permettersi di acquistare un agnello (Lv 12,8). La letteratura rabbinica ne parlava come dell’“offerta del povero” (qorban cani). Più avanti si dirà che i suoi genitori si recavano ogni anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua (Lc 2,41). Ovvero: quando Gesù viene alla luce viene accolto da istituzioni, riti, parole e gesti elaborati dalla cultura e dalla fede del popolo d’Israele. Gesù entra nel tempo, ma questo tempo è misurato, scandito (“quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione … quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale”), messo a servizio di un’iniziazione. Così, a otto giorni dalla nascita, come prescrive il Levitico, Gesù viene circonciso, conosce quel gesto che simbolizza la sua appartenenza al popolo dell’alleanza; al bambino viene imposto il nome proprio che simbolizza la sua vocazione personalissima, il suo inserimento nelle relazioni famigliari e sociali, nelle relazioni intraumane. Quindi, a quaranta giorni dalla nascita, viene presentato al Signore nel Tempio: in realtà nessun precetto obbligava a presentare al Tempio il figlio primogenito. Tutt’al più questa azione era raccomandata alla pietà dei fedeli: Nee 10,36-37 parla di “portare ogni anno al Tempio del Signore le primizie del nostro suolo e le primizie di ogni frutto di qualunque pianta, come anche i primogeniti dei nostri figli e del nostro bestiame grosso e minuto”. Il gesto indica dunque la pietà dei genitori di Gesù e, per Luca, assume un valore rivelativo che gli consente di conferire anche a questo episodio in cui Gesù è un infante completamente dipendente dagli altri, una portata cristologica. I genitori di Gesù, portandolo al Tempio e vivendo essi stessi l’obbedienza alla Torah e la sottomissione al Signore, gli fanno vivere la fedeltà che egli vivrà in prima persona, in futuro, all’interno della sua personalissima vocazione. Anche Giuseppe e Maria preparano la via del Signore: con la loro fede, con il loro amore, con la loro giustizia, con la loro obbedienza. Dunque, sottolinea il passo di Luca, Gesù entra nella realtà e la realtà che lo accoglie è simbolica, è intessuta da fili che sono gesti e parole, leggi e riti, costumi e tradizioni che attestano e fanno emergere la valenza simbolica del mondo. Cioè, che il mondo è più del mondo, che il corpo è più del corpo; ovvero che il mondo non è solo, che il corpo non è solo, che l’uomo non è solo. Gesù entra nel mondo e la rete di simboli culturali e religiosi, rituali e cultuali che lo accoglie, lo fa sentire chiamato, interpellato, immesso in relazioni, appartenente. Anche Gesù accede alla parola perché altri gli parlano e gli hanno parlato; anche Gesù conosce l’iniziazione alla vita e alle relazioni attraverso la simbolicità del reale. Simbolicità che in questa pagina di Luca dice essenzialmente l’appartenenza: Gesù appartiene al popolo d’Israele; Gesù appartiene a una famiglia precisa; Gesù appartiene a Dio. Questa dimensione cristologica del testo è enfatizzata dalle parole sia di Simeone (Lc 2,29-32) che di Anna (Lc 2,38) che discernono e profetizzano la sua vocazione messianica.

Il cuore dell’episodio evangelico è costituito dall’incontro tra il neonato e due persone anziane, Simeone, ormai prossimo alla morte, e Anna, di ottantaquattro anni. Come i genitori di Gesù, anche Simeone e Anna sono persone semplici, pure, pulite, animate da una fede limpida. Il testo non lo esplicita, ma suppone che sia avvenuto il passaggio del bambino dalle braccia materne (immaginando che fosse Maria a tenerlo in braccio) a quelle di Simeone (Lc 2,27-28) e questo gesto passato sotto silenzio dice anch’esso dell’umanità semplice di questo incontro. In esso ciò che prevale è l’umano, il buon senso che pone l’umano al primo posto, l’umano come fine dei riti e delle usanze religiose, l’umano come luogo e finalità dell’azione dello Spirito (e Simeone è “mosso dallo Spirito”: Lc 2,27). E tutto avviene nel quadro di un incontro umano, non di un rito. Prima dell’azione liturgica prevista, fuori da un quadro cultuale, in un contesto spaziale del Tempio in cui anche le donne potevano entrare, avviene l’incontro tra la madre e il padre di Gesù e l’anziano profeta. In verità un profeta nascosto. Un profeta quotidiano, cioè un uomo di fede e di speranza, un uomo di preghiera, un uomo abitato dallo Spirito di Dio, ma senza la popolarità e la notorietà, certo spesso a caro prezzo, ma comunque reali, e con aspetti gratificanti, di diversi profeti. Un profeta nascosto che non si manifesta in pubblico, che viene quasi “scovato”, fatto uscire allo scoperto, rivelato da Gesù stesso.

E l’incontro più significativo è proprio quello tra Simeone e Gesù, tra l’anziano e il neonato, tra colui che si prepara alla morte e colui che si apre alla vita, tra colui che la vita ha attraversato e colui che sta salpando per il viaggio. È l’incontro di due debolezze: la debolezza dell’anziano e la debolezza dell’infante. All’impotenza del bambino corrisponde la non volontà di possesso da parte dell’anziano, il non voler avere un potere su di lui, ben espresso da un quadro di Rembrandt, un quadro che restò incompiuto e che rappresentava proprio Simeone e il bambino Gesù. E rinviamo il lettore alla contemplazione del quadro di Rembrandt come migliore esegesi del nostro testo. Questo quadro, dipinto da un Rembrandt ormai vicino alla morte e che presta il proprio volto a Simeone (dipingendo Simeone, Rembrandt fa un autoritratto), mostra la delicatezza dell’anziano. Il bambino è deposto sulle sue braccia stese in avanti ma egli non stringe il piccolo, le sue mani che spuntano da sotto il bambino in fasce, sono tese in avanti, aperte, non stringono il corpicino, ma quasi lo presentano, lo consegnano. Inoltre, Simeone ha la bocca semiaperta come se stesse bisbigliando parole a bassa voce, forse sussurrando una preghiera, e gli occhi, che hanno visto la salvezza, sono pressoché totalmente chiusi. Debolezza dunque declinata come delicatezza, come volontà di non trattenere colui che è destinato a illuminare le genti (Lc 2,32), sguardo pudico, trattenuto, di chi può ormai chiudere gli occhi, e chiuderli per sempre, perché l’essenziale è stato visto. E due fasci di luce illuminano il viso dell’anziano e il volto e il corpo del bimbo che emergono dalla penombra circostante. Ha scritto uno storico dell’arte commentando questo quadro: “Alla sera della sua vita, quando Rembrandt ha sentito risuonare nel suo cuore il Nunc dimittis, quando ha cantato il cantico di Simeone da uomo che sa che cos’è la luce e che cos’è l’ombra, la chiaroveggenza e la cecità, la vita e la morte, questo canto risuona in una solitudine che è quella dell’anima davanti a Dio. Tutto è compiuto. Quel che doveva essere fatto è stato fatto. Ciò che era stato annunciato è stato realizzato. Colui che, infine, ha ricevuto l’eternità, e che la tiene tra le sue braccia, può restituire al Creatore la forma che ha appena compiuto. Non vi è più materia, non vi è quasi più forma. La luce sacra ha così imbevuto questa sostanza che tutto ciò che non è luce è stato distrutto o consumato. È bene che il quadro sia rimasto incompiuto. Perché “ogni esistenza non si compie che nell’infinito” (Marcel Brion). Dunque, l’incontro di due debolezze. Ma che differenza tra le due! La debolezza del neonato è una nudità rivestita da altri; la debolezza dell’anziano è quella di chi si spoglia. La prima è la debolezza di chi è ignaro della vita, la seconda di chi la vita l’ha solcata e ne è restato segnato. E proprio gli occhi che hanno visto e le braccia che hanno sorretto il bambino, nel quadro di Rembrandt sono, i primi pressoché chiusi, a non profanare, a rispettare, e le seconde aperte, a non trattenere. Il pudore avvolge totalmente la figura di Simeone, la volontà di non esercitare potere su altri lo abita. Simeone è oltre questi atteggiamenti di possesso e di controllo che così spesso appassionano tanti uomini, anche tanti uomini di chiesa, rendendoli uomini di potere, non di fede, di abuso, non di cura.