Incontro con il Signore

Foto di Mike Labrum su Unsplash
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9 febbraio 2025

V domenica nell’anno
Luca 5,1-11 (Is 6,l-2.3-8)
di Luciano Manicardi

In quel tempo 1 Mentre la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio, Gesù, stando presso il lago di Gennèsaret, 2vide due barche accostate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. 3Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedette e insegnava alle folle dalla barca.
4Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca». 5Simone rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti». 6Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. 7Allora fecero cenno ai compagni dell'altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare. 8Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore». 9Lo stupore infatti aveva invaso lui e tutti quelli che erano con lui, per la pesca che avevano fatto; 10così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, che erano soci di Simone. Gesù disse a Simone: «Non temere; d'ora in poi sarai pescatore di uomini». 11E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono.


L’esperienza dell’incontro con il Signore è al cuore del testo di Isaia (Is 6,1-2.3-8) e del brano evangelico (Lc 5,1-11). Il momento della grande vicinanza con il Signore coincide con la presa di coscienza della propria distanza profonda da lui e del proprio peccato: Isaia accompagna la sua confessione di fede al riconoscimento della propria impurità (cf. Is 6,5) e Pietro confessa il Signore e, contemporaneamente, riconosce di essere un peccatore. L’incontro con il Signore comporta un mutamento dell’esistenza di Isaia e di Pietro i quali accolgono la missione che il Signore conferisce loro (“Eccomi, manda me”: Is 6,8; “D’ora in poi sarai pescatore di uomini”: Lc 5,10).

I due testi si raggiungono anche sul tema della vocazione. Ma, più che a una vocazione in senso stretto, in ambo i casi ci troviamo di fronte a un incontro che produce una trasformazione profonda nella persona. Quell’incontro diviene un momento di verità in cui la persona assume la coscienza della propria limitatezza e negatività: Isaia si riconosce impuro, Pietro peccatore. Si tratta di un evento di conoscenza di sé che si verifica in un contesto relazionale, a seguito di una potente esperienza di alterità. Se parliamo di vocazione, dobbiamo decodificarla e vedervi un evento che colpisce in profondità la persona, la quale si sente toccata, raggiunta nel profondo, conosciuta nell’intimo. Il termine usato da Luca, thámbos (“stupore”: Lc 5,9; Vulgata: stupor), ha in sé il significato di essere colpito da stupore, e anche da timore e spavento. Le esperienze trasformative hanno un prezzo, producono una ferita. Una ferita soprattutto all’immagine narcisistica di sé, tanto che si può parlare di una sensazione di morte che attraversa la persona. Il testo di Isaia, che si apre con l’annuncio della morte del re Ozia, prosegue con l’esperienza spirituale di Isaia che lo pone faccia a faccia con la morte. “Sono perduto” (Is 6,5), dice il profeta. Ma è una perdita attraverso cui Isaia rinasce a nuova vita. Esattamente come la morte del re Ozia introduce la visione che mostra Dio come vero re su Israele e su tutta la terra. Non è diverso per Pietro che accetta di essere contraddetto nella sua competenza di pescatore e aderisce all’invito di Gesù di gettare le reti e andare al largo anche di giorno, dopo che la pesca nel tempo favorevole, cioè di notte, non aveva portato a nulla. L’incontro con il Signore è un’esperienza pasquale, un’esperienza di morte che fa approdare a una nuova vita. O a una nuova fase della vita. Si tratta di un passaggio, di una iniziazione. Isaia si dispone a essere inviato dal Signore nella missione che gli affiderà; Pietro si vede trasformato da pescatore in pescatore di uomini. Così la vocazione-incontro si concretizza in un’esperienza esistenziale di “crisi”. E la crisi, quando evolve positivamente, diviene un cammino di iniziazione. E l’iniziazione è caratterizzata dalla separazione da una condizione in cui si era installati (Pietro era un pescatore) che, attraverso una situazione di precarietà in cui la persona si sente in contatto con la morte (“Sono perduto”: Is 6,5; “Allontanati da me, perché sono un peccatore”: Lc 5,8), evolve verso un nuovo assetto esistenziale (“Eccomi, manda me”: Is 6,8; “Sarai pescatore di uomini”: Lc 5,10).

L’Antico Testamento ci pone di fronte a un’altra forma di passaggio che potremmo definire dal sacro al santo. Il testo presenta una visione che si svolge nel Tempio e in cui Dio appare seduto come re su un trono elevato: siamo davanti a una sorta di stanza del trono. Si descrive il manto regale che riempie il Tempio e si evocano gli elementi teofanici del fuoco (Is 6,2: “serafini” sono gli angeli ardenti, ignei; il verbo śaraf significa “bruciare”, “ardere”) e del fumo (Is 6,4). Al cuore di questa visione echeggia la triplice acclamazione che proclama la santità del Signore (v. 3). Tuttavia, il messaggio del testo, che parla di una pienezza traboccante (“i lembi del suo manto riempivano il Tempio”; “il Tempio si riempiva di fumo”), è che la presenza del Signore si estende su “tutta la terra” (v. 3). E il nome di Dio è “Signore degli eserciti”, ovvero, “delle schiere”, intendendo con ciò le schiere celesti: non è riferimento a un attributo “militare” di Dio, ma alla sua regalità cosmica. Dunque: il Dio dei cieli manifesta la sua gloria sulla terra e trova nel Tempio un luogo di dimora ma che non esaurisce la sua presenza. Il Tempio è il luogo in cui Isaia, di fronte alla magnificenza dell’Altissimo, percepisce la propria limitatezza e il proprio peccato ma, al tempo stesso, esperisce anche la purificazione che accompagna il perdono (v. 7) e che abilita il profeta ad ascoltare la voce del Signore e ad aderire alla missione che gli viene affidata. Il racconto, formulato in prima persona dal profeta, mostra che l’impatto della presenza di Dio su Isaia è espressa come esperienza corporea. Dall’iniziale “Io vidi il Signore” (v. 1) al finale “Io ascoltai la voce del Signore” (v. 8), coinvolgendo non solo occhi e orecchie, ma anche tatto e olfatto, bocca e labbra, il profeta compie un cammino in cui la presenza del Signore si manifesta come colui che parla e che lo invia a parlare e annunciare in suo nome (v. 8 e i vv. 9ss.: “Va’ e riferisci a questo popolo”). L’incontro con il Signore, espresso con il vocabolario del vedere, implica timore e paura di morte (“nessun uomo può vedermi e restare vivo”: Es 33,20), ma l’evoluzione dell’incontro trova la sua pienezza nell’ascolto della parola di Dio e, in particolare, nel dialogo che si instaura tra i due. Dio si rivolge al profeta con una domanda a cui Isaia risponde presentando la propria disponibilità all’invio (v. 8). Dall’esperienza del divino colta sotto i segni sacrali del tremendum e del fascinans, si passa all’esperienza del Dio re e santo, che cioè interviene nel mondo, agisce nella storia, si lega a un popolo e sceglie uomini che parlino in suo nome.

Il testo evangelico è il racconto di un inizio. Ogni racconto di inizio è fatto a distanza di tempo dall’inizio stesso. L’inizio è riconosciuto come tale quando ha un seguito e diviene storia. In tale racconto si riflette ciò che si è vissuto e si è diventati a partire da quell’inizio. Noi abbiamo bisogno di tale racconto quando dobbiamo capirci più a fondo. Il vangelo presenta il racconto dell’inizio della sequela di Pietro (e altri con lui), ma non Pietro fa tale racconto, bensì Luca. E anche questo è importante: sempre nella vita, e dunque anche in una vita ecclesiale, la mia storia non è solo mia e il racconto che altri fanno di me è importante per capirmi. Perché quell’inizio ha dato vita a qualcosa di condiviso, di partecipato con altri da cui non posso prescindere se non rinnegando la storia stessa. Ed è importante anche ascoltare le storie degli altri. Anche perché al di là degli inizi particolari di ciascuno, nella vocazione cristiana vi è un inizio unico per tutti. E il testo evangelico è illuminante per noi. Alcuni elementi sono sintetizzati in questo racconto di inizio fatto a partire dal prosieguo del cammino. La parola del Signore: “sulla tua parola getterò le reti” (v. 5). A distanza di tempo, quando il canto del gallo sveglierà Pietro alla coscienza del suo rinnegamento, egli si ricorderà della parola che il Signore gli aveva detto e da lì ricomincerà. La parola del Signore è il bene inestimabile che ci resta anche a distanza di tempo e da cui cominciare in un nuovo inizio. Poi, la promessa: “d’ora in poi sarai pescatore di uomini” (v. 10). Si tratta, a partire da ciò che si è, di diventare altro da ciò che si è. All’inizio, quando non avevamo coscienza di ciò che significa inizio, questa promessa forse entusiasmava. Col tempo, Pietro (e noi con lui) fa esperienza delle sue resistenze a tale divenire, della sua poca fede che abbisogna della preghiera di Gesù stesso: “Ho pregato”, gli dirà Gesù, “perché non venga meno la tua fede” (Lc 22,32). Noi possiamo credere che questa preghiera sia anche per noi. Quindi, la coscienza di essere un peccatore. “Allontanati da me, perché sono un peccatore” (v. 8), dice Pietro a Gesù nel momento in cui lo riconosce Signore e vive con lui una grande vicinanza. Più tardi, quando, credendo di essergli vicino, gli si farà lontano, egli piangerà amaramente riconoscendo il suo essere peccatore. A distanza di tempo come agli inizi, Pietro, e noi con lui, è sempre un peccatore. Infine: l’inizio di Pietro è anche l’inizio di un’avventura comunitaria. Quelli che erano suoi compagni di lavoro, métokhoi, (v. 7) diventano suoi koinonoí (v. 10), uniti a lui in una vicenda di comunione che ha nel Signore il suo inizio unico. Quando Pietro, nel prosieguo del suo cammino rinnegherà anche la sua comunità negando di essere “uno di loro” (Lc 22,58), ecco che il ricordo della parola del Signore ridesterà la sua coscienza di essere peccatore e rinnoverà la promessa del Signore per lui che lo risitua in mezzo ai suoi fratelli: “Una volta convertito, conferma i tuoi fratelli” (Lc 22,32). L’inizio, dice il vangelo, è una crisi, e la crisi nel cammino intrapreso è la possibilità di un nuovo inizio. L’inizio è una crisi di cui non si ha coscienza. La crisi della storia iniziata un tempo, e di cui invece si ha acuta coscienza, è appello a ricominciarla e a rinnovarla. Sempre fondandosi sulla parola del Signore, sulla sua promessa, sulla nostra coscienza di essere peccatori.