La polarità del discepolato

Foto di Gaetano Cessati su Unsplash
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16 febbraio 2025

VI domenica nell’anno
Luca 6,17.20-26 (Ger 17,5-8)
di Luciano Manicardi

In quel tempo 17Gesù, si fermò in un luogo pianeggiante. C'era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone,

 20Ed egli, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva:

«Beati voi, poveri,
perché vostro è il regno di Dio.
21Beati voi, che ora avete fame,
perché sarete saziati.
Beati voi, che ora piangete,
perché riderete.
22Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell'uomo. 23Rallegratevi in quel giorno ed esultate perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i profeti.
24Ma guai a voi, ricchi,
perché avete già ricevuto la vostra consolazione.
25Guai a voi, che ora siete sazi,
perché avrete fame.
Guai a voi, che ora ridete,
perché sarete nel dolore e piangerete.
26Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti.


La prima lettura (Ger 17,5-8) e il vangelo (Lc 6,17.20-26) della VI domenica dell’Ordinario dell’annata C sono caratterizzati da una polarità: nel testo profetico è espressa nei termini di “benedizione” e “maledizione”, nella pagina evangelica dalla tensione fra “beatitudini” e “guai”. Analoga polarità è presente anche nel Salmo responsoriale, il Salmo 1 (molto vicino al testo di Geremia), che presenta l’antitesi fra giusti e malvagi e che si apre con il macarismo (“Beato [makários, in greco] l’uomo …”: Sal 1,1) rivolto all’uomo che medita giorno e notte la Legge del Signore e in essa trova la sua gioia. Chi pone nella Legge del Signore il suo desiderio, non solo ne riceve saldezza e fecondità, ma diviene lui stesso fonte di benedizione per altri. E questo perché con la meditazione assidua, la Torah del Signore diventa la sua Legge: e “sua” si può benissimo riferire all’uomo stesso e non al Signore: “Beato l’uomo … / che nella Legge del Signore trova la sua gioia, / la sua Legge medita giorno e notte” (Sal 1,1). La volontà di Dio espressa nella Torah, introiettata dall’orante con l’ascolto, la ripetizione e la meditazione, radica il credente nella fonte di vita che fa di lui una sorgente di benedizione. Il Salmo si compone di due quadri che presentano il giusto e la sua via (vv. 1-3) e il malvagio e la sua via (vv. 4-6). Il giusto è colui che discerne, sceglie e prende decisioni: pronuncia tre no (“non entra … non resta … non siede”) e dice un sì (“medita la legge del Signore”) su cui fonda la propria saldezza umana e spirituale (cf. v. 1) che gli apre un futuro di fecondità. Il malvagio, invece, è descritto come perso nell’inconsistenza e nell’infecondità. Aprendo l’intero Salterio, il Salmo 1 vuole sbarrare la strada all’indifferenza e affermare la necessità della scelta. Questo è anche il messaggio dell’Antico Testamento e del Vangelo. C’è una necessaria scelta di campo, un’opzione che in definitiva è tra l’autosufficienza e la fiducia nel Signore, ovvero tra l’idolatria e la fede: questo dice Geremia con la polarità tra chi confida nell’uomo e chi confida nel Signore, e questo dice il vangelo che mette a confronto chi è povero (e dunque affamato e afflitto) e chi è ricco (e dunque sazio e gaudente).

La domanda che ci possiamo porre è quanto queste polarità onorino la complessità dell’esistenza che normalmente non si presenta in bianco e nero, ma contiene una quantità di sfumature tendente all’infinito. Incontriamo qui lo scarto tra la vita e i testi che cercano dire la vita. Quest’ultima è sempre più ricca e non racchiudibile in formule che, per quanto pedagogicamente utili (le espressioni antitetiche dicono che occorre scegliere, imboccare una via, dunque pronunciare un sì che comporta tanti no), sono superate dai casi e dalle situazioni imprevedibili che la quotidianità presenta. I campi del giusto e dell’empio non sono comparti stagni, ma si intrecciano, si sovrappongono, si compenetrano: le pareti della giustizia e della malvagità sono porose, anche nell’intimo della stessa persona. Del resto, come le beatitudini rivolte a poveri, affamati e afflitti (“voi che ora piangete”: Lc 6,21) non costituiscono la sacralizzazione di categorie, così i guai rivolti a ricchi, sazi e gaudenti (“voi che ora ridete”: Lc 6,25), non rappresentano una condanna, ma sono un ammonimento che intende suscitare un cambiamento che non solo viene intravisto come possibile, ma che ne costituisce il vero fine. Lo stesso Geremia, subito dopo le parole presenti nella pericope liturgica, parla del cuore umano come contorto, non lineare, fallace, ingannevole (Ger 17,9): come farvi affidamento? Come dunque trarre indicazioni perentorie e schematiche sui comportamenti umani quando il profondo dell’essere umano - il suo cuore - è così contraddittorio e ambiguo? Vale la pena ricordare il passo in cui Agostino, che ben sa che l’uomo è abisso, mostra la labilità delle appartenenze e dunque invita a non giudicare frettolosamente e a non trarre indicazioni perentorie che accompagnerebbero una prassi fondamentalista e intollerante. Scrive Agostino: “La città pellegrina di Cristo si ricordi che sicuramente fra i suoi avversari si nascondono dei futuri suoi concittadini e non ritenga vano sopportare presso di loro l’ostilità, finché non li raggiunga come credenti; allo stesso modo, fra quelli che la città di Dio porta anche con sé, ad essa legati nella comunione sacramentale, finché è pellegrina nel mondo, alcuni non li avrà con sé nella condizione eterna dei santi; questi sono in parte noti, in parte ignoti e non esitano a mormorare contro Dio, con cui sono uniti per mezzo dei sacramenti, fino a riempire una volta i teatri assieme agli altri, una volta le chiese assieme a noi. Ma persino della correzione di alcuni di questi non si deve assolutamente disperare, perché presso chi ci è apertamente contrario si nascondono dei futuri compagni, anche se tuttavia essi non ne sono consapevoli” (De civitate Dei I,35). Ovvero, è difficile stabilire confini netti tra chi è nella chiesa e chi ne è fuori.

La prima lettura parla di una fiducia che è salda e non delude e di false fiducie, ovvero di sicurezza posta in realtà che illudono, ma non salvano, non danno pienezza di vita. Di fatto, emerge che “in qualcosa” o “in qualcuno” la fiducia la si mette sempre: non si vive senza fiducia. Gesù “ha confidato in Dio” (Mt 27,43). Ma si può confidare, ovvero fondare la propria sicurezza e la propria saldezza – il fondamento che ci fa avanzare nella vita, e dunque anche ciò che regge la nostra speranza – su basi sdrucciolevoli e inconsistenti che, presto o tardi, condurranno alla rovina. Il confidare “nell’uomo” (Ger 17,5) si declina come un porre la propria sicurezza nelle ricchezze, o nelle armi, o nei beni che si possiedono, o in se stessi e nella propria forza, o nel prestigio sociale, ecc. Porre la fiducia “nel Signore” (Ger 17,7) implica invece un processo di spogliamento, di disarmo, cioè un cammino di verità nei confronti di se stessi. Un far cadere le maschere con cui non solo ci illudiamo di essere forti, ma pensiamo anche di poter esorcizzare la morte. E l’atto di fiducia si configura come paradossale: la propria saldezza la si trova in un movimento che ci decentra da noi stessi. L’atto di fiducia ha una struttura pasquale, implica una morte a se stessi per trovare vita e saldezza in altri da sé: “se non credete, non sussisterete”, “non avrete stabilità” (Is 7,9).

La pagina evangelica presenta quattro beatitudini che Gesù rivolge in modo speciale ai suoi discepoli (“Alzati gli occhi verso i suoi discepoli, diceva”: Lc 6,20), mentre i successivi quattro “guai”, che sono un puntuale contraltare delle beatitudini, li possiamo cogliere come una messa in guardia rivolta agli stessi discepoli affinché non assumano l’atteggiamento che contraddice le beatitudini e offende il loro statuto di seguaci di Cristo. Ovviamente, le beatitudini non proclamano la felicità del povero in quanto povero, ma annunciano che nel Cristo che ha abitato la povertà, queste situazioni non hanno l’ultima parola, non hanno la forza di ostruire il futuro e di uccidere la speranza, ma vengono risignificate e diventano esperienza del Regno e apertura a esso. La beatitudine non consiste nella povertà o nel patire la fame o nel piangere o nella persecuzione, ma nell’essere raggiunti dall’azione di Dio in Gesù, il Messia che secondo la profezia di Is 61,1ss è venuto a portare ai poveri la buona notizia (cf. Lc 4,18-19). In particolare, la beatitudine espressa nel v. 22 riguarda i cristiani odiati, discriminati ed esclusi, insultati e diffamati. La dimensione di beatitudine consiste nel fatto che proprio quando ci si trova in situazioni così penose a causa del vangelo, situazioni vissute da Gesù stesso, si può credere di essere veramente suoi discepoli e di trovarsi là dove lui stesso si è trovato. Ma la beatitudine consiste anche nel fatto che di quel male si è oggetto e non soggetto: lo si subisce e non lo si compie. Analoghe considerazioni troviamo nella prima lettera di Pietro: “È meglio soffrire operando il bene che facendo il male” (1Pt 3,18); “Beati voi se venite insultati per il nome di Cristo” (1Pt 4,14); “Nessuno di voi abbia a soffrire come … malfattore … ma se uno soffre come cristiano … dia gloria a Dio” (1Pt 4,15-16). Il credente, avverte Gesù, può incontrare odio (“sarete odiati da tutti a causa del mio nome”: Lc 21,17), può patire esclusione e messa al bando, può essere oggetto di ingiurie e insulti, può conoscere la diffamazione: ponendo la sua fiducia nel Signore può reggere nel silenzio e portare tutto questo senza lasciarsene destrutturare. Importante è che non arrivi lui stesso a mettere in atto tali azioni. Infatti, odiare, discriminare, escludere, ingiuriare, diffamare sono pratiche anche interne alla compagine ecclesiale. E all’interno della comunità cristiana risuonano anche le parole di Gesù che mettono in guardia dal compiacersi nel fatto che “tutti parlano bene di voi” (Lc 6,26). Chi cerca di essere sempre lodato, di incontrare l’apprezzamento altrui, chi mendica l’applauso e il riconoscimento (e oggi, con gli strumenti mediatici a disposizione, questa deriva narcisistica è enormemente facilitata) dimostra di non avere come referente il Cristo, ma di cercare il consenso umano. E questo è il tipico atteggiamento dei falsi profeti. Gesù direbbe: “Hanno già ricevuto la loro ricompensa” (Mt 6,2.5.16).