Praticare l’amore

Foto di Stuart Ruff su Unsplash
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23 febbraio 2025

VII domenica nell’anno
Luca 6,27-38 (1Sam 26,2.7-9.12-13.22-23)
di Luciano Manicardi

In quel tempo Gesù diceva: 27A voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, 28benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male. 29A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l'altra; a chi ti strappa il mantello, non rifiutare neanche la tunica. 30Da' a chiunque ti chiede, e a chi prende le cose tue, non chiederle indietro.
31E come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro. 32Se amate quelli che vi amano, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori amano quelli che li amano. 33E se fate del bene a coloro che fanno del bene a voi, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori fanno lo stesso. 34E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto. 35Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell'Altissimo, perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi. 36Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso. 37Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati. 38Date e vi sarà dato: una misura buona, pigiata, colma e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio».


La relazione con il nemico: questo il tema che unisce Antico Testamento (1Sam 26,2.7-9.12-13.22-23) e Vangelo (Lc 6,27-38). David risparmia Saul, che lo perseguita, perché Saul è l’unto del Signore. Il rispetto per il Signore porta David a trascendere la logica dell’inimicizia. Nel Vangelo, Gesù comanda: “Amate i vostri nemici” (Lc 6,27.35), e ciò che chiede ai suoi seguaci egli lo pratica in tutta la sua vita. Gesù narra un Dio che unilateralmente mantiene la relazione di amore con chi lo rigetta e lo rifiuta.

Nel passo tratto dal primo libro di Samuele il gesto di Davide consiste nel “non fare”. Saul sta cercando di uccidere Davide, ma questi, quando gli si presenta l’occasione di sbarazzarsi del suo nemico togliendogli la vita, si astiene dal farlo. La narrazione di 1Sam 26, da cui è tratta la pericope liturgica, ha un parallelo in 1Sam 24, dove si racconta un episodio analogo. Stando ai due testi, che sono quasi dei doppioni, sull’inimicizia personale e sull’istinto di conservare la propria vita sopprimendo quella del suo nemico, Davide ha fatto prevalere un sentimento di pietà (“ho avuto pietà di te”: 1Sam 24,11), un senso di rispetto nei confronti del consacrato del Signore (1Sam 24,7; 26,11), di timore del Signore e di paura delle conseguenze che il gesto di ucciderlo potrebbe procurargli (1Sam 26,9). Davide risparmia la vita a Saul (e in 1Sam 25 anche a Nabal, ma lì per l’azione e l’intercessione della saggia Abigail, moglie dello stolto Nabal). Ovvero, Davide ha messo un limite a sé, si è frenato, non ha dato realizzazione a ciò che sarebbe stato più naturale, o almeno, più rispondente all’impulso: mors tua, vita mea. Infatti: “Quando mai uno trova il suo nemico e lo lascia andare sulla buona strada?” (1Sam 24,20). Già: quando mai? La vendetta esercita un notevole potere di fascinazione: essa ha la pretesa di agire sul passato e conferisce al vendicatore un senso di potenza quasi divina. Il gesto da cui Davide si astiene (e fare il bene, in questo caso, è impedirsi di fare il male) è lo “stendere la mano su” (1Sam 24,7.11; 26,9.11), espressione presente anche in Gen 3,22 e che indica l’atto di usurpare la vita, di entrare in un rapporto di possesso nei confronti del mondo ergendosi a dio. È il gesto che indica una volontà di presa di potere sulla realtà, sulla vita, sugli altri, su Dio stesso (cf. 1Cr 13,9-10). Davide sopprime l’“inimicizia” nel suo cuore.

E questa “soppressione” fa parte di quel lavoro su di sé richiesto dall’impresa di “amare il nemico” che Gesù chiede, anzi, comanda, nel discorso della pianura (Lc 6,17-49). Una prima considerazione è che il comando non si pone sul piano affettivo, non ordina di provare sentimenti di affetto per colui che odia, ma si situa su un piano operativo, pratico, effettivo più che affettivo, e indica azioni concrete da mettere in atto e comportamenti da assumere. Il comando dell’amore per il nemico è infatti subito specificato come un “fare il bene” (Lc 6,27). È interessante notare che l’agire dell’amore è definito prima come “bello” (kalôs poieîte: v. 27), quindi come “buono” (agathopoiête: v. 33): dimensione etica ed estetica si raggiungono in una prassi che vuole rispettare tanto la dignità di colui che offende quanto quella di colui che è offeso. Questo rispondere al male con il bene è tutt’altro che naturale e richiede grande forza nei confronti di se stessi. Richiede ascesi, cioè esercizio di autocontrollo per frenare gli impulsi reattivi che risponderebbero in modo speculare con violenza a chi ricorre alla violenza. In questo, l’amore del nemico è esercizio di libertà: libertà dalla violenza dell’altro che non ha il potere di vincerci e portarci a ripeterla; libertà da noi stessi, che non ci sentiamo derubati della nostra umanità da gesti anche violenti o umilianti che subiamo sicché abbiamo la lucidità di abitare il silenzio di fronte alla violenza verbale o di trasformare gesti in cui patiamo una spogliazione in atti di donazione (“a chi ti strappa il mantello non rifiutare neanche la tunica … da’ a chiunque ti chiede”); libertà nei confronti delle cose e dei beni (“a chi prende le tue cose, non chiederle indietro … prestate senza sperarne nulla”). Questa prassi si radica nell’interiorità e necessita, aggiunge Gesù, della preghiera: “pregate per coloro che vi trattano male” (o “vi calunniano”). E pregare significa innestare per fede il proprio cuore, la propria mente e il proprio corpo nell’agire che fu di Cristo Gesù, il quale “insultato, non rispondeva con insulti, maltrattato non minacciava vendetta” (1Pt 2,23) e sulla croce pregava per i suoi aguzzini (cf. Lc 23,34). L’amore del nemico si radica ultimamente nella fede in Cristo, e diviene sequela di Cristo anche nel suo patire il male senza reagirvi con violenza. L’amore del nemico ha bisogno della preghiera per il nemico, ovvero di portare il nome e il volto di colui che fa il male e odia, davanti a Dio nella preghiera intima e silenziosa, per vedere quella persona nuovamente illuminata dalla luce che il Padre di tutti sa gettare anche su chi sfigura la propria umanità commettendo il male. Allora si può riuscire nella difficile impresa di cogliere il nemico come un fratello che il male ha allontanato da noi.

Che cosa può sostenere l’uomo nel lavoro di cercare di mettere in pratica l’amore del nemico? Oltre a quanto abbiamo già detto, vi è un altro elemento decisivo. Ovvero, la certezza che ciò che può distruggere la nostra umanità non è tanto l’odio che ci viene riversato addosso o l’umiliazione che ci viene inflitta o la percossa che subiamo, ma l’odio che noi possiamo arrivare a nutrire, la violenza che noi esercitiamo, le azioni malvagie che noi mettiamo in atto. Queste uccidono la nostra anima (cf. Mt 10,28), la nostra umanità, e sfigurano la nostra immagine e somiglianza con Dio. Insomma, amare il nemico è espressione della cura della nostra umanità, è un gesto radicale di cura e custodia dell’umanità che è in noi e nell’altro. Non a caso al cuore del nostro testo evangelico si trova la cosiddetta regola d’oro: “Come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro” (Lc 6,31). Anche questa indicazione richiede un lavoro su di sé. Nel libro del Siracide si dice: “A partire da te intendi i desideri del tuo prossimo e su tutto rifletti” (Sir 31,15). Nel testo latino della Vulgata il passo recita: Intellige quae sunt proximi tui ex teipso. L’intelligenza del prossimo esige intelligenza di sé. E l’amore, anche per coloro che a loro volta ci amano, ha bisogno di questo lavoro interiore: occorre leggersi dentro per comprendere l’altro; ascoltare la sofferenza dell’altro è possibile quando ascoltiamo e riconosciamo la nostra. Il prossimo è, al tempo stesso, l’altro e me stesso. Di tutto questo c’è bisogno ancor di più quando si deve accordare l’amore con chi amabile non è, il nemico. E compito primo del credente (e di ogni essere umano) è quello di non entrare nelle logiche dell’inimicizia giungendo o a spingere altri a farsi suoi nemici o a diventare lui stesso nemico di qualcuno fino al punto di non salutarlo più, di non rivolgergli più la parola, di cancellarlo dalla propria vita. Non è forse una sorta di omicidio? E anche abbastanza quotidiano, se pensiamo che, alla fine dei conti, chi è il nemico? Il nemico è l’amico, il vicino, il prossimo, colui che ci è accanto. Gesù ha trovato in Giuda, uno dei Dodici, chi si è fatto suo nemico personale. Noi riusciamo a trasformare amici, famigliari, coniugi, amanti, fratelli, sorelle in nemici. E se questo è abbastanza frequente e facile, ben più raro e difficile è il contrario. Come dice un testo della tradizione rabbinica: “Il più grande eroe è colui che trasforma il suo nemico nel suo amico” ('Abot R. Natan A 23). Vi è insomma una dimensione di inimicizia o, come scrive qualcuno, una “nemicità”, che abita in noi ed è da conoscere e arginare. Altrimenti, se non viene addomesticata, ci trascina nella barbarie.

Né possiamo dimenticare che la spirale dell’inimicizia porta con sé la follia della guerra. Guerra che si può combattere tra individui, in spazi famigliari (cf. Mt 10,21), nei luoghi di lavoro, tra classi sociali, tra etnie, contro migranti, tra appartenenti a religioni diverse e tra nazioni. La chiesa stessa, nella sua storia, ha creato nemici trasformando un’alterità parziale in alterità assoluta. Il pagano, l’ebreo, l’eretico, il musulmano sono alcuni dei visi storici in cui la cristianità ha incarnato il nemico e l’ha combattuto fino a eliminarlo anche fisicamente in nome della difesa dell’identità, dell’ortodossia, della verità. Nei nostri tempi di marcata e feroce polarizzazione, il binomio nemico – guerra è molto diffuso. Vien da pensare a quello che un intellettuale ha chiamato “il terribile amore per la guerra” che, come potente pulsione, abita l’uomo e lo agisce. Eraclito affermava che Pólemos (guerra) di tutte le cose è padre. Forse, antidoto a questo terrificante amore per la guerra è l’evangelico amore per il nemico. “Tutte le guerre sono combattute fondamentalmente per proteggere la propria famiglia, per difendere la propria nazione, e così, in fondo trovano la loro giustificazione per rispondere al principio dell’amore del proprio prossimo. Non avrebbero potuto essere giustificate per rispondere al principio dell’amore per il proprio nemico” (Peter Noll). Solo l’amore per il nemico può vincere l’amore per la guerra.