Lo Spirito santo e noi
25 maggio 2025
VI domenica di Pasqua
Giovanni 14,23-29 (At 15,1-2.22-29; Ap 21,10-14.22-23)
di Luciano Manicardi
In quel tempo Gesù disse 23: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. 24Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato.
25Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. 26Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto. 27Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore. 28Avete udito che vi ho detto: «Vado e tornerò da voi». Se mi amaste, vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il Padre è più grande di me. 29Ve l'ho detto ora, prima che avvenga, perché, quando avverrà, voi crediate.
Grazie allo Spirito, Cristo pone la sua dimora nel credente (Gv 14,23-29); grazie allo Spirito, alcune componenti del cristianesimo primitivo riunite a Gerusalemme, attraverso un faticoso cammino sinodale, risolvono uno spinoso problema che stava producendo tensioni e divisioni (At 15,1-2.22-29). Se il vangelo parla dell’inabitazione di Cristo nel credente, dunque del credente come dimora di Dio e di Cristo, la seconda lettura (Ap 21,10-14.22-23) propone la visione della Gerusalemme escatologica in cui la dimora “sacramentale” di Dio, il tempio, è sostituito dalla Presenza stessa dell’Agnello e di Dio. I temi che attraversano le letture di questa domenica sono pertanto l’azione personale, ecclesiale, storica ed escatologica dello Spirito e la dimora di Dio (il credente, la chiesa, il Regno).
Il passo degli Atti degli Apostoli rappresenta l’evento più significativo di uno stile sinodale per risolvere i problemi ecclesiali. Si tratta del cosiddetto concilio (ma si tratta di un incontro in cui si è stipulato un accordo fra chiese) di Gerusalemme in cui viene affrontato e risolto il disaccordo tra le chiese di Antiochia e di Gerusalemme circa l’obbligatorietà o meno della circoncisione per chi entri a far parte della chiesa cristiana provenendo dal mondo pagano. L’incontro di Gerusalemme fa seguito al sorgere di un conflitto, ad Antiochia, tra Paolo e Barnaba da una parte e alcuni giudeo-cristiani gerosolimitani dall’altra i quali predicavano ai cristiani di Antiochia: “Se non vi fate circoncidere secondo l’usanza di Mosè, non potete essere salvati” (At 15,1). Nasce allora la questione: per la salvezza occorre osservare la Legge anche nei suoi aspetti culturali ebraici? La disputa, pur accanita, è tuttavia volta a cercare (il termine greco zêtêsis,che indica questa contesa, designa anche una ‘ricerca’: At 15,2) una soluzione giusta: non si va subito alla rottura dei rapporti, ma si discute senza rifuggire dai toni accesi. Meglio litigare che non parlarsi! Ad Antiochia non si perviene ad alcuna soluzione e allora “fu stabilito che Paolo, Barnaba e alcuni altri di loro salissero a Gerusalemme dagli apostoli e dagli anziani per questa disputa” (At 15,2). La comunità di Antiochia appoggia la linea di Barnaba e Paolo “accompagnandoli” (At 15,3) per un tratto di cammino: dunque i due vanno a Gerusalemme con un mandato comunitario, esprimendo il pensiero e il sentire di una comunità. “Arrivati a Gerusalemme, furono accolti dalla comunità, dagli apostoli e dagli anziani” (At 15,4). At 15 ci pone di fronte alla tipica struttura sinodale (tutti-alcuni-uno): l’intera comunità, un consiglio o un collegio di rappresentanti e responsabili, infine chi ha la responsabilità ultima della comunità. Dopo essere stata ospitata, la delegazione viene ascoltata. Dall’accoglienza all’ascolto! Attraverso momenti diversificati (discussioni assembleari, riunioni ristrette, interventi dei responsabili) si perviene a una decisione comune. Intervengono Paolo e Barnaba, interviene Pietro, interviene Giacomo, autorevole portavoce della comunità a cui appartenevano coloro che avevano turbato la comunità di Antiochia, il quale propone quattro interdetti da osservare per permettere ai giudeo-cristiani di prendere cibo insieme agli etnico-cristiani senza incorrere nel timore di impurità rituale e per conferire uno statuto canonico agli etnico-cristiani (At 15,13-21). Nell’antico Israele c’erano, accanto ai figli d’Israele, degli stranieri residenti che arrivavano ad assimilarsi e a cui veniva chiesto di rispettare quattro prescrizioni: non commettere impurità sessuali, non mangiare il sangue degli animali, né animali morti soffocati, né le carni di animali usati per sacrifici agli idoli (Lv 17-18). Questo è il substrato dei quattro atteggiamenti richiesti agli etnico-cristiani. Senza bisogno di farsi circoncidere, gli etnico-cristiani si impegnano a obbedire a queste richieste, esattamente come gli stranieri di cui parla il testo di Levitico. Con questo compromesso si crea un modus vivendi nelle comunità cristiane composte di provenienti dal giudaismo e dal paganesimo. L’accordo finale è sigillato da un documento scritto: lo scritto rimane e su di esso ci si può confrontare. Giunti alla decisione comune, viene inviata ad Antiochia una delegazione con due membri eletti della comunità di Gerusalemme, Giuda e Sila (At 15,22-29). Nella lettera di accompagnamento si dice che la decisione finale è stata frutto dello “Spirito santo e noi”. Non l’uno senza gli altri (e viceversa). La fatica sinodale è l’umile disporre tutto comunitariamente affinché lo Spirito del Signore possa agire. La reazione di gioia della chiesa di Antiochia (At 15,31) mostra che il decreto non viene sentito come un diktat calato dall’alto, ma come una garanzia del bene grande della comunione della chiesa. Il faticoso cammino sinodale ha dato i suoi frutti di riconciliazione. Mi preme sottolineare che ciò che emerge dall’insieme del testo di At 15 (su cui mi sono permesso di dilungarmi anche oltre i limiti posti dal taglio della pericope liturgica) è che il metodo spirituale ecclesiale, ovvero il metodo sinodale mosso dallo Spirito santo, è quello della discussione. Non imposizioni dall’alto, non discussioni farsa con documenti finali già preventivamente preparati, ma l’aperta discussione con confronti tra posizioni divergenti e la volontà di trovare punti d’incontro in vista del bene comune. Vale la pena di ricordare che Tommaso d’Aquino (nella sua opera Quodlibet XII, q. 22, art. 1, 36, circa la liceità o meno di fare uso di sortilegi nell’apertura dei libri), si oppone a coloro che aprivano a caso la Bibbia per risolvere le controversie riconoscendo che una simile pratica è un’offesa allo Spirito santo, mentre i cristiani hanno come metodo quello di dibattere e discutere in assemblea: “Invece di cercare l’accordo con gli altri si fa ingiuria allo Spirito santo che noi crediamo fermamente essere presente nella chiesa e nelle assemblee (quia hoc est facere iniuriam Spiritui Sancto, qui creditur firmiter esse in Ecclesia vel in collegiis)”. L’azione dello Spirito nella dinamica sinodale è espressa al meglio dalla preghiera che tradizionalmente segna l’apertura di un sinodo, ovvero, l’Adsumus. Preghiera rivolta allo Spirito santo (Adsumus, Sancte Spiritus; “Siamo qui dinanzi a te, Spirito santo”), essa non è una mera ouverture, ma costituisce un’epiclesi che intende abbracciare l’intero processo sinodale ponendolo sotto la guida e l’illuminazione dello Spirito. Preghiera allo Spirito e preghiera comunitaria, l’Adsumus è mosso dalla coscienza che solo lo Spirito può compaginare in unità il corpo di Cristo, la comunità cristiana, articolando in unità la diversità, ordinando i differenti carismi presenti nella chiesa, e plasmando la comunione ecclesiale sul fondamento della comunione del Figlio con il Padre.
Se la pagina degli Atti degli Apostoli parla dell’azione comunitaria dello Spirito, il vangelo, che contiene seconda delle cinque promesse dello Spirito presente nei discorsi di addio di Gesù ai suoi, parla dell’azione interiore dello Spirito. Azione che si esprime dell’insegnare e nel ricordare: “Lo Spirito … vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” (Gv 14,26). Lo Spirito insegnerà e farà ricordare, come un maestro al discepolo, e il fine di tale insegnamento è che il Cristo sia finalmente nel discepolo, ne divenga presenza interiore. Il compimento della vocazione cristiana è che la vita di Cristo viva in noi. Che dunque non il nostro psichismo domini in noi, detti i nostri comportamenti e determini le modalità delle nostre relazioni, ma il vangelo, cioè, Cristo. Lì si manifesta la libertà cristiana, la libertà guidata dallo Spirito santo, la libertà che ci libera dalla prigionia più sottile: la sottomissione alla tirannia del nostro io. Una tirannia che spesso si accompagna, scandalosamente, al nostro essere credenti, al nostro parlare di Dio e in nome di Cristo. È una schiavitù che spesso mascheriamo in libertà, una patologia che camuffiamo in sanità, un peccato che volgiamo in virtù. Solo nello Spirito possiamo ripetere con Paolo che non più io vivo, ma Cristo vive in me (cf. Gal 2,20). Lo Spirito è infatti memoria del Cristo, del Christus totus, e ci porta a imparare non solo le parole di Cristo, ma i suoi modi. Lo Spirito è la voce che accompagna la Parola, è il tono, la vibrazione, la modalità della Parola, è il soffio che accompagna inestricabilmente la parola e ne fornisce il vero contenuto e ne dichiara la vera origine (non da noi, ma dall’alto): è sincerità, dolcezza, forza, rispetto, è - dice Paolo - pace, non guerra, mitezza, non violenza, dominio di sé, non sregolatezza e dominio sugli altri, magnanimità, non risentimento e pretesa, benevolenza, non cattiveria, amore, non odio (cf. Gal 5,22). I Padri della Chiesa insegnano che le parole e i modi dell’uomo spirituale generano pace, non turbamento, serenità, non paura, armonia, non angoscia, perdono, non colpevolizzazione, libertà, non dipendenza. Lì abbiamo la visibilità e la conoscibilità dello Spirito, nei suoi frutti. E lì anche emerge la testimonianza che l’uomo abitato dallo Spirito può dare: obbediente all’insegnamento dello Spirito, diviene segno di Cristo, memoria vivente di Cristo, alter Christus.