Come pregare
27 luglio 2025
XVII domenica nell’anno
Luca 11,1-13 (Gen 18,20-21.23-32)
di Luciano Manicardi
In quel tempo 1 Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli». 2Ed egli disse loro: «Quando pregate, dite:
Padre,
sia santificato il tuo nome,
venga il tuo regno;
3dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano,
4e perdona a noi i nostri peccati,
anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore,
e non abbandonarci alla tentazione».
5Poi disse loro: «Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: «Amico, prestami tre pani, 6perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli», 7e se quello dall'interno gli risponde: «Non m'importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani», 8vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono.
9Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. 10Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto. 11Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? 12O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? 13Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!».
La preghiera è il mistero che riceve luce dalle pagine di Genesi (Gen 18,20-21.23-32) e di Luca (Lc 11,1-13). In particolare viene sottolineata la modalità della preghiera. Genesi presenta una preghiera di intercessione e la mostra come ostinata, capace di ricominciare sempre da capo. Essa è anche una lotta tra uomo e Dio, un faticoso incontrarsi tra richieste dell’orante e libertà di Dio. La preghiera esige coraggio, capacità di resistenza, di non scoraggiarsi, esige parresia, cioè franchezza, libertà, audacia. Anche Gesù, nel suo insegnamento sulla preghiera, sottolinea gli aspetti di perseveranza e insistenza: nella preghiera si tratta di bussare, chiedere, cercare. Certi che il dono veramente necessario, il dono dello Spirito, non sarà negato a chi lo invoca (cf. Lc 11,13).
La prima lettura presenta la figura di Abramo. La cui fede si esprime anche nella preghiera: egli è padre nella fede e nella preghiera. Il cammino che il Signore lo invita a percorrere (“Va’”: Gen 12,1) non è solo esteriore e spaziale, ma anche interiore (“Va’ verso te stesso”: Gen 12,1) e temporale. L’orante è “l’errante del tempo” (Pierre-Jean Labarrière). La vocazione di Abramo lo chiama a divenire benedizione per “tutte le famiglie della terra” (Gen 12,3), ma poiché è in lui che esse saranno benedette (“in te si diranno benedette”: Gen 12,3), Abramo si fa, in certo modo, loro dimora, loro luogo, le porta in sé con l’intercessione, e così avviene nella sua preghiera per Sodoma e Gomorra. E quasi a mostrare l’intrinsecità di intercessione e ospitalità, il narratore lega l’episodio della preghiera per le due città all’accoglienza concessa da Abramo ai tre uomini che lo visitano nell’ora più calda del giorno (Gen 18,1-16). Subito Abramo appare come “l’intimo di Dio”, colui che Dio definisce “mio amico” (Is 41,8). E un amico non può tener nascosto al suo amico ciò che ha in cuore: “Posso io tenere nascosto ad Abramo ciò che sto per fare?” (Gen 18,17). Così come un amico non può esimersi dall’alzarsi anche nel pieno della notte per dare dei pani a un amico che bussa alla sua porta (cf. Lc 11,5-8). Il “debito di amicizia” porta dunque Dio ad aprire il proprio cuore davanti ad Abramo (Gen 18,20-21).
Lo svolgimento del racconto presenta le movenze del processo giudiziario. Un’accusa viene rivolta al giudice: un grido di dolore che chiede giustizia sale a Dio da Sodoma e Gomorra. Dio allora, che è “il giudice di tutta la terra” (Gen 18,25), decide di fare un’inchiesta e informarsi personalmente della verità dei fatti e delle accuse (“Voglio scendere a vedere se proprio hanno fatto tutto il male di cui è giunto il grido fino a me”: Gen 18,21; cf. Dt 17,4). Ma prima il giudice deve ascoltare l’avvocato difensore, il cui ruolo, nel nostro testo, è svolto da Abramo. Un avvocato che non esiterà nella prima parte del suo intervento (il confronto espresso nei vv. 23-25) a mettere alle strette Dio con domande e affermazioni incalzanti che sfociano in un aperto rimprovero che è anche memoria di come dev’essere il comportamento di Dio. L’intervento di Abramo è preceduto da un’osservazione circa la postura di Abramo. Questa annotazione si trova nel v. 22, saltato dalla pericope liturgica. Lì si dice che Abramo “stava in piedi (nei LXX: estekòs) davanti al Signore”. L’immagine è quella di un supplice che perora una causa davanti a chi ha potere di esaudire la richiesta. Possiamo pensare al pubblicano al Tempio che non ha nulla da offrire a Dio e che, da lontano, sta in piedi (estòs) rimettendosi umilmente a Dio. La postura di Abramo è del tutto convenzionale. Tuttavia qui siamo di fronte a uno di quegli interventi chiamati “correzioni degli scribi” con cui gli antichi copisti dei manoscritti hanno modificato il testo (indicando per altro tale modifica) che avevano davanti giudicandone inaccettabili le implicazioni teologiche. Per farla breve: il testo più antico diceva che “il Signore stava in piedi davanti ad Abramo” e dunque poneva il Signore nella situazione di inferiorità rispetto ad Abramo, “come a suggerire che Abramo fosse il senior partner dell’interazione e YHWH il supplice deferente” (Walter Brueggemann). Ora, facendo un passo indietro, prima dell’intervento “normalizzante” degli scribi, possiamo cogliere un’indicazione importante circa la postura della preghiera. Di fronte alla prospettiva che Dio castighi indiscriminatamente tutti gli abitanti di una città, senza distinguere tra giusti ed empi, Abramo esprime l’indignazione, lo sconcerto, lo scandalo. E con audacia rimprovera Dio: “Forse il giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?” (Gen 18,25). Abramo esprime il suo sdegno con un’espressione accorata e drammatica, ripetuta due volte, il cui significato è molto più duro del banale “lontano da te” (Gen 18, 25) della traduzione CEI. Il senso è più grave e significa che Dio stesso cadrebbe nell’impurità, nella profanazione: “sarebbe contaminante per te” (in ebraico: chalilah lak). L’indistinzione tra giusto ed empio (“Davvero sterminerai il giusto con l’empio?”: Gen 18,23) significherebbe l’empietà di Dio, la sua ingiustizia, la sua impurità. È come se Abramo richiamasse Dio a un comportamento etico: la natura è indifferente all’uomo e un terremoto non si fa problemi di distruggere in un istante intere città inghiottendo giusti e malvagi. Ma il comportamento di Dio non può essere mosso da simile cecità e indifferenza. La preghiera viene qui colta come possibilità di intervento presso Dio e anche come audace correttivo dell’agire di Dio. Dopo questo posizionamento audace, Abramo, l’intercessore – che non mette mai in dubbio l’autorità di governo e il potere di intervento del Signore – inizia la fase del negoziato (vv. 26-32). Si tratta di una contrattazione simile a quelle che avvengono in Oriente nei suk e nei bazar tra acquirente e venditore. Abramo aveva inserito nel suo discorso la prospettiva del perdono (v. 24) a tutta la città in nome dei cinquanta giusti che vi si fossero trovati. E Dio accede al pensiero di Abramo (“Se a Sodoma troverò cinquanta giusti nell’ambito della città, per riguardo a loro perdonerò a tutto quel luogo”: v. 26). A questo punto però è come se Abramo vacillasse nella fiducia che si possano trovare cinquanta giusti e, previe continue professioni di umiltà (vv. 27.30.31.32), conduce Dio ad abbassare il numero fino a dieci. Ci si può chiedere se Abramo non avrebbe dovuto spingersi oltre e osare di più. Credo che sarebbe stato inutile. Geremia cercherà se in Gerusalemme vi sia “un solo uomo che pratichi il diritto” (Ger 5,1) e sia giusto, ma non ce n’erano. E nel nostro testo non si dice affatto che Lot e la sua famiglia fossero giusti. Del resto, in ogni uomo abitano giustizia e ingiustizia. La preghiera di Abramo dunque non salva Sodoma e Gomorra che furono sepolte sotto la pioggia di zolfo e fuoco proveniente dal Signore (Gen 19,24). Tuttavia, per riguardo ad Abramo, Dio salvò Lot e la sua famiglia (Gen 19,29). Che cosa resta? Resta la fede di Abramo, la sua audacia che sconfina nell’irriverenza nei confronti di Dio. Resta una preghiera che esprime un atteggiamento di tale libertà e di confidenza così profonda da non doversi riparare dietro falsi pudori e toni edulcorati. Mi piace immaginare che la sfrontatezza della preghiera di Abramo abbia incontrato il compiacimento di Dio, così come Dio gradì le parole veementi e perfino blasfeme di Giobbe a preferenza di quelle teologicamente corrette dei suoi amici (cf. Gb 42,8). Resta una preghiera che esprime una fede capace di vincere Dio.
Dal testo evangelico traggo una sola indicazione. I discepoli chiedono a Gesù di insegnare loro a pregare come anche Giovanni ha fatto con i suoi discepoli (Lc 11,1). Dunque, a pregare si impara: la preghiera può essere trasmessa. E si impara vedendo e ascoltando chi prega. La formulazione lucana della preghiera che l’evangelista Matteo ci ha trasmesso come “Padre nostro”, è assai diversa da quella del primo evangelista. Il che mostra che tale preghiera più ancora che formula da ripetere a memoria, è un canovaccio della preghiera cristiana, e presenta il dinamismo umano e spirituale in cui entrare per poter veramente pregare. La preghiera è vita filiale davanti a Dio chiamato e sentito come “Padre”. E qui emerge un’istanza decisiva per il futuro della fede. La possiamo formulare grazie a una domanda brutale: cosa ci sta a fare una comunità cristiana? A introdurre sempre più in profondità i battezzati nella vita di relazione con Dio Padre, per mezzo del Figlio Gesù Cristo, nello Spirito santo. Questo implica che priorità della chiesa (che implica il tralasciare altre attività non essenziali per quanto “buone”), di ogni comunità cristiana, sia il fornire strumenti che aiutino il credente a crescere in tale relazione grazie alla quale soltanto la fede avrà un futuro. La priorità è trasmettere l’arte della vita spirituale: insegnare a pregare; a conoscere Gesù, il Signore, a partire dalla testimonianza scritturistica, evangelica in specie; introdurre al discernimento, alla lotta spirituale, alla necessaria ascesi, alla vita liturgica. Potremmo continuare, ma l’arte di pregare, di relazionarsi a Dio come a un “tu”, è passo fondamentale e irrinunciabile di una chiesa che voglia adempiere il proprio mandato missionario (cf. Mt 18,19-20) e non voglia tradire la propria maternità. Inutile fare tante cose nella chiesa se ci si dimentica di insegnare a pregare.