Un battesimo di fuoco

Giovanni Frangi
Giovanni Frangi

17 agosto 2025

XX domenica nell’anno
Luca 12,49-53 (Ger 38,4-6.8-10)
di Luciano Manicardi

In quel tempo Gesù disse:"49Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso! 50Ho un battesimo nel quale sarò battezzato, e come sono angosciato finché non sia compiuto!
51Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione. 52D'ora innanzi, se in una famiglia vi sono cinque persone, saranno divisi tre contro due e due contro tre; 53si divideranno padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera».


La prima lettura (Ger 38,4-6.8-10), databile all’epoca dell’assedio babilonese a Gerusalemme, mostra come la vocazione profetica porti Geremia a incontrare opposizioni sempre più violente fino a essere consegnato in mano di uomini che lo gettano in una cisterna dove avrebbe certamente trovato la morte se non fosse stato per l’intervento di un eunuco etiope. La colpa di Geremia? Aver continuato ad annunciare quella parola del Signore che aveva sconvolto la sua vita e che all’inizio del suo ministero profetico gli era parsa dolce come il miele (Ger 15,16) e che, col passare del tempo, obbligandolo a denunciare ipocrisie e infedeltà del popolo e dei suoi capi, divenne per lui amara come il fiele sì da procurargli accuse infamanti, calunnie (Ger 20,7-8) e scatenargli contro una violenza verbale e fisica. Il rigore della sua condotta, l’adesione al discernimento della situazione storica alla luce della parola del Signore che lo portava a consigliare al re Sedecia la sottomissione a Nabucodonosor, lo isolano e lo mettono in balìa di coloro che lo accusano di tradimento, di voler passare al nemico, e per questo cercano di eliminarlo. Nel vangelo (Lc 12,49-53) il cammino di Gesù di obbedienza al Padre è anche cammino di salita verso Gerusalemme, verso l’immersione (“battesimo”) che lo attende e che egli riceverà quando sarà consegnato nelle mani dei peccatori che lo maltratteranno e lo metteranno a morte. Gesù vive l’abbandono nelle mani di Dio conoscendo il tragico destino di chi cade in balia degli uomini e della loro malvagità. E Gesù avverte chi lo segue che il cammino dietro a lui comporterà inevitabilmente divisioni dolorose, lacerazioni, opposizioni. Se il tema del deterioramento dei legami famigliari e sociali rientrava nella visione dei tempi ultimi nella coscienza apocalittica giudaica (Mi 7,5-6), l’espressione lucana “d’ora in poi” (Lc 12,52), assente nel testo parallelo di Matteo (Mt 10,34-36), riferisce queste tribolazioni e lacerazioni al tempo della chiesa. Vivere autenticamente la fede nella storia comporta conflitti e divisioni che possono riguardare anche persone molto vicine e con cui si è vissuto profonda intimità.

Il conflitto che porta gli avversari di Geremia a cercarne la morte non è che l’ultimo di una serie di contrasti che hanno visto il profeta di Anatot subire attacchi, minacce e violenze (Ger 7; 11,18-12,6; 18,18-23; 19-20,6; 26). Per onestà verso Dio e la sua parola, per coerenza nei confronti della chiamata ricevuta, per adesione alla missione che Dio gli ha affidato, Geremia proclama al popolo e alle sue guide ciò che comportano l’elezione e l’alleanza stretta da Dio con loro. Geremia è figura dell’uomo responsabile, che con tutta la sua vita risponde della vocazione ricevuta, convinto che questo sia il suo compito, quello che lui e solo lui può adempiere, e che sia anche il bene del popolo. Geremia è anche figura dell’uomo libero: non recede, non si lascia intimidire dalle pressioni e dalle minacce, ma percorre risolutamente, volontariamente, la strada che il Signore gli ha indicato e che lui ha abbracciato come sua. Ed è anche figura dell’uomo obbediente: del resto, l’autentica obbedienza avviene solo nella libertà. La parola del Signore che l’ha avvinto, in certo modo gli si impone e quasi lo obbliga a non tirarsi indietro di fronte alle difficoltà, bruciando anche le sue resistenze: “Mi dicevo: ‘Non penserò più a lui, non parlerò più nel suo nome!’ Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa, mi sforzavo di contenerlo ma non potevo” (Ger 20,9). Analogamente, il vangelo pone in bocca a Gesù un’espressione che dice la sua risolutezza, la sua libera obbedienza che lo conduce con determinazione a proseguire il suo cammino e compiere la sua missione (“sono venuto per ...”). In Lc 12,50 il verbo synéchomai (tradotto dalla Bibbia CEI con “sono angustiato”) indica che “Gesù si trova di fronte ad un obbligo che gli si impone imperiosamente” (Augustin George). La Vulgata traduce con il verbo coartor. Sia Geremia che Gesù ci consentono di intuire il dramma di fede e di amore, di libertà e di fedeltà, di obbedienza e di responsabilità, che si sta giocando nel loro intimo. Il compito ricevuto e liberamente assunto li porta a compiere atti e dire parole che provocano loro ostilità e opposizioni, da parte di chi è infinitamente più potente di loro e può decidere della loro vita e della loro morte. Potrebbero sottrarsi al loro destino, potrebbero scegliere vie più comode cedendo alle pressioni dei loro avversari, ma preferiscono andare a fondo del loro compito accettando di veder andare a fondo la loro stessa vita. Ma qui non abbiamo parole per spingerci oltre: il mistero della loro coscienza lo possiamo avvicinare solo con il silenzio.

Un altro aspetto che la pagina di Geremia ci consente di cogliere circa la missione profetica riguarda il coraggio di andare contro la visione dell’elezione come privilegio e come garanzia di indefettibilità: si tratti del Tempio (Ger 7), del popolo santo e della città di Gerusalemme (Ger 18-19), Geremia combatte contro l’idolatria che consiste nel mettere Dio a servizio dell’uomo, nell’appropriarsi di Dio da parte di un gruppo o di una nazione, di farne il sostegno delle proprie opinioni, scelte e politiche. Scrive Jean-Luc Marion: “L’idolo rende vicino, protettore e legato da un giuramento di fedeltà il dio che, identificandosi alla città, le conserva una identità”. In particolare, Geremia, come tutti i profeti, non ha mai fatto dire al Signore “Io sono il vostro Dio esclusivamente” (Pierre Bonnard), e anche nel brano liturgico odierno è un non ebreo, un etiope che salva Geremia incontrando poi la benedizione del Signore (Ger 39,15-18). Analogamente, Geremia, come tutti i profeti, non ha mai fatto dire al Signore: “Io sarò per voi un Dio indifferente alla vostra condotta morale, garantendovi la felicità, non importa quali crimini commettiate” (ancora Pierre Bonnard).

Geremia viene dato nella mani dei suoi aguzzini (Ger 38,5) perché accusato di scoraggiare (lett. “indebolire le mani”: Ger 38,4) i combattenti. E il re Sedecia appare lui stesso nelle mani dei “capi” che esigono la messa a morte di Geremia. Egli esprime la sua debolezza dicendo: “Il re non può nulla contro di voi” (Ger 38,5). E qui appare che questa mainmise non è necessariamente fisica, ma può essere l’assumere il controllo di una persona riducendola in una posizione di dipendenza. Si tratta di abuso di potere volto al controllo e alla manipolazione di una persona. Anche Gesù sarà consegnato nelle mani degli uomini (Mt 17,22; 26,45.50; Mc 9,31; 14,41.46; Lc 9,44; 24,7) e anche i suoi discepoli conosceranno questa sorte (Lc 21,12; At 4,3; 5,18; 12,1; 21,27). Gesù saprà leggere e integrare questo evento doloroso nell’immersione che dovrà ricevere. Lo sapranno fare anche i suoi discepoli? È la domanda che Gesù pone a Giacomo e Giovanni: “Potete essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?” (Mc 10,38). Ed è la domanda che raggiunge ogni credente: essere là dove è stato il Signore comporta la possibilità di arrivare a subire violenze, dinamiche di controllo, meccanismi di manipolazione, strategie di abuso che sono sempre un mettere le mani su altri.

Nel brano evangelico Gesù parla della sua missione ricorrendo alle immagini del fuoco, che egli è venuto a portare sulla terra, e dell’acqua in cui sarà immerso: portare fuoco e ricevere un’immersione: ecco la sua missione. E Gesù si premura di correggere un’interpretazione erronea del suo ministero: “pensate che io sia venuto la portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione” (Lc 12,51). Le parole di Gesù rivelano anzitutto una verità umana: il conflitto, che non va identificato con la violenza e la guerra, fa parte della vita e attraversa la convivenza umana. Esso è anzitutto confronto tra posizioni divergenti e perfino incompatibili, così come può nascere dalla discrepanza tra le aspettative umane e la dura realtà. Il problema sarà come risolvere il conflitto, se in maniera dialogica e costruttiva o violenta e distruttiva. Ma nel terzo vangelo è decisivo l’aspetto cristologico. La venuta di Gesù ha una dimensione giudiziale: la sua presenza esige una presa di posizione da parte di chi lo ascolta, spingendolo a schierarsi. Gesù, infatti, è “segno di contraddizione (“a cui sarà portata contraddizione”) affinché siano svelati i pensieri di molti cuori” (Lc 2,34). In realtà Luca ha già espresso narrativamente ciò che qui viene formulato in modo lapidario. In Lc 4,16-30, l’omelia di Gesù nella sinagoga di Nazaret produce divisione tra gli astanti: se vi è chi è ammirato di lui, vi è anche chi diffida di lui e lo denigra. E sarà così durante tutto il suo ministero fino alla croce, dove i due crocifissi con lui si dividono tra chi lo bestemmia e chi ne riconosce l’innocenza e lo supplica (Lc 23,39-43). Il lavoro di verità che Gesù attua passa attraverso il giudizio che vede nel profondo e scandaglia il cuore. Non è forse questa la forza “chirurgica” della parola di Dio che penetra come spada a doppio taglio nel profondo della persona, la mette in crisi attuando un giudizio, giunge fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, e mette a nudo i sentimenti e i pensieri del cuore (cf. Eb 4,12)?