Libero da sé
23 novembre 2025
XXXIV Domenica nell’anno
Luca 23,35-43 (2Sam 5,1-3 – Col 1,12-20)
di Luciano Manicardi
In quel tempo, [dopo che ebbero crocifisso Gesù,] 35il popolo stava a vedere; i capi invece lo deridevano dicendo: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l'eletto». 36Anche i soldati lo deridevano, gli si accostavano per porgergli dell'aceto 37e dicevano: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso». 38Sopra di lui c'era anche una scritta: «Costui è il re dei Giudei». 39Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». 40L'altro invece lo rimproverava dicendo: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? 41Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male». 42E disse: «Gesù, ricòrdati di me quando entrerai nel tuo regno». 43Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».
Le letture di questa domenica finale dell’anno liturgico, che celebra Cristo quale Signore e re dell’universo, presentano la regalità nella sua dimensione comunionale, corporativa. Nella prima lettura (2Sam 5,1-3) le tribù di Israele riconoscono David come re e mostrano di sentire il Messia come figura corporativa. Esse si affidano a lui quasi incorporandosi simbolicamente a lui: “Noi ci consideriamo come tue ossa e tua carne” (1Sam 5,1). Nel vangelo (Lc 23,35-43) siamo di fronte a Gesù quale Messia debole, inerme, che, sulla croce, mentre si affida radicalmente a Dio (cf. Lc 23,46), vede affidarsi a lui un malfattore crocifisso accanto a lui. E Gesù incorpora a sé quest’uomo promettendogli comunione: “Oggi sarai con me nel paradiso” (Lc 23,43). La seconda lettura (Col 1,12-20) esprime la fede ormai sviluppata della chiesa che celebra l’incorporazione cosmica nel Cristo Risorto: tutto è stato creato in Cristo, per mezzo di lui, ma anche in vista di lui, per essere ricapitolato in lui.
Non stiamo a ripercorrere la storia problematica e l’origine di questa festa (istituita nel 1925 da Pio XI con l’enciclica Quas primas) che presenta numerose criticità che hanno condotto, all’interno della riforma liturgica postconciliare, a una sua trasformazione con lo spostamento dall’ultima domenica di ottobre dove era collocata originariamente all’ultima domenica dell’anno liturgico e con l’inserimento di letture bibliche centrate sulla croce (annata C, Lc 23,35-43), su Cristo giudice escatologico (annata A, Mt 25,31-46), sul senso messianico del titolo di Re applicato a Cristo (annata B, Gv 18,33-37). Già questi cambiamenti consentono di reinterpretare in senso escatologico e spirituale le connotazioni pesantemente politiche che avevano presieduto all’istituzione di tale festa, per cui il regno universale di Cristo era anche regno sociale e copriva l’ambito spirituale e quello temporale, riguardava gli individui così come le società e gli stati. Resta da chiedersi se, nonostante la revisione della festa dovuta alla riforma postconciliare, sia ancora sensato consacrare la domenica finale dell’anno liturgico alla celebrazione di Cristo a partire da quel titolo regale che Gesù ha svuotato di ogni legame con il potere politico, che suona distante ed estraneo agli orecchi dei fedeli, e che sembra pur sempre, larvatamente, sommessamente, alludere a una rivendicazione di potere ecclesiastico sulle società. E come tale può essere utilizzato in ambiti omiletici e catechetici.
Il testo evangelico si situa all’interno del racconto lucano della passione e morte di Gesù (Lc 22-23). E la prima comunicazione di Luca al lettore riguarda la divisione che si crea davanti a Gesù crocifisso tra il popolo e i capi. Il popolo (laòs) stava ad osservare, mentre i capi (árchontes) si facevano beffe di Gesù. L’atteggiamento del popolo è positivo. Di esso si dice anzitutto che “stava là”, cioè “rimaneva”, “stava con perseveranza”. Non sono persone che, mentre passavano, si sono fermate mosse da curiosità morbosa. Il loro essere e stare là esprime una decisione, una volontà, un interesse, potremmo dire un coinvolgimento. L’altro atteggiamento del popolo è espresso dal verbo theoreîn, che andrebbe tradotto con “osservare riflettendo”, non semplicemente con “vedere”. Dove l’evento osservato attentamente si riflette interiormente sull’osservatore e opererà una trasformazione. Sarà infatti a partire da questa osservazione attenta, da questa contemplazione, theoría (Lc 23,48: la Bibbia CEI traduce “spettacolo”), che nascerà il pentimento delle folle davanti al crocifisso (Lc 23,47-48). La dimensione interiore e spirituale del rimanere osservando è espresso dalla traduzione latina che dice: stabat populus exspectans. Restare e osservare sottendono la tensione interiore di chi è in attesa. I capi invece “deridevano” Gesù. Il verbo usato (ekmychterízein) si trova in un solo altro passo del Nuovo Testamento, e sempre nel terzo vangelo. In Luca 16,14 il soggetto sono i farisei che, amanti del denaro, deridono Gesù che ha appena affermato l’incompatibilità dell’attaccamento al denaro con l’autentica adesione a Dio (Lc 16,13). Qui sono i capi (possiamo pensare a sacerdoti, anziani, scribi) che irridono Gesù vedendolo ridotto all’impotenza sull’ignobile strumento di condanna che è la croce. Che cos’è che porta gli umani a ridere di qualcuno? Normalmente è uno scarto tra un’affermazione o una situazione e la realtà, tra ciò che viene considerato normale e un atteggiamento, una situazione, un discorso che se ne allontana così radicalmente da produrre un effetto anomalo di contrasto, inappropriatezza e stramberia. Nella derisione dei farisei circa le parole di Gesù sul denaro è come se dietro ai loro sghignazzi ci fosse il giudizio su Gesù: è un idealista, un illuso, uno che non sa stare al mondo. Di certo, quella derisione rivela una loro credenza che Gesù urta a tal punto che essi non possono assolutamente lasciarsene interrogare, ma vi reagiscono con l’irrisione. Davanti al crocifisso la derisione nasce dalla constatazione che “il Cristo di Dio” (v. 35), “il re dei giudei” (v. 37) è un pover’uomo impotente appeso a una croce. Anche qui la derisione dice qualcosa del derisore svelando che la concezione messianica dei capi è antitetica a quella di Gesù. E la derisione è la scorciatoia che consente di disfarsi dell’altro che potrebbe metterci in questione e di restare saldi nei nostri convincimenti. Con l’aggiunta di quel tot di cattiveria che avvicina il riso perverso del derisore alla “gioia maligna”, la gioia per le disgrazie altrui. Di certo Luca, con l’introduzione della scena espressa dal v. 35, mostra ancora una volta la divisione che si crea davanti alla persona di Gesù, vero segno di contraddizione che svela i pensieri di molti cuori (cf. Lc 2,34-35). E tale opera di verità, di discernimento di ciò che abita nel cuore di ciascuno, giungerà al suo apice quando anche i due condannati a morte accanto a Gesù si divideranno circa la sua persona: uno lo ingiuria, l’altro lo supplica (Lc 23,39-42).
In Luca, gli scherni rivolti a Gesù sia dai capi (v. 35), che dai soldati (v. 37), che da uno dei malfattori (v. 39), riguardano tutti la pretesa messianica e ripetono quest’unica idea: se sei veramente il Messia, il Cristo di Dio, “salva te stesso” (vv. 35.37.39). Nel testo parallelo di Matteo (Mt 27,39-44) le ingiurie colpiscono la situazione di impotenza di Gesù sulla croce e fanno leva su di essa per demolire la vita precedente di Gesù colpendo rispettivamente la sua forza e autorità (Mt 27,40), la sua relazione buona e terapeutica verso tanti (Mt 27,42), la sua fede in Dio (Mt 27,43). Come se la debolezza radicale del morente dovesse inficiare e invalidare tutto il bene fatto in precedenza. Luca presenta come ritornello quel salvare se stesso che, per i detrattori di Gesù, è l’unica cosa che potrebbe comprovare la sua qualità messianica. Agli occhi e nella mente di chi gli rivolge le accuse di usurpare il titolo di Messia, la sua incapacità di salvarsi dimostra che egli è un falso Messia. Per loro “salvare la propria vita” è il sigillo dell’autentica messianicità. Invece è proprio questa tirannia dell’ego, dell’io eretto a dio, dell’io da blandire e proteggere e salvare ad ogni costo, che Gesù ha combattuto. Il suo messaggio è inequivocabile: “Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà” (Lc 9,24). Gesù ha potuto annunciare con forza e autorevolezza queste esigenze dure e sconcertanti solo perché le viveva. E le ha vissute non solo sulla croce, ma in tutto il cammino terreno che alla croce l’ha condotto. Tutta la sua vita, ovvero tutta la narrazione evangelica, andrebbe letta avendo presente che ogni gesto e ogni parola di Gesù hanno dietro di sé questo atteggiamento di libertà dalla volontà propria, dal dispotismo dell’ego, dalla tensione a “salvare sé stesso”, ovvero a spuntarla sempre, ad avere la meglio sugli altri, a cercare in ogni situazione la maniera di ricavarne un vantaggio personale. E potremmo continuare a lungo. Certo, questa vita che si libera a un tale livello di profondità, può giungere fino al punto di accettare di finire, di perdere se stessa, pur di non fare violenza, di non coartare, e anzi cercando di vivere, nella misura che le viene consentito, di amare, di fare spazio agli altri. Come fa Gesù con i suoi crocifissori di cui invoca il perdono dal Padre (“Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno”: Lc 23,34) e come fa con il malfattore che lo supplica di ricordarsi di lui quando verrà nel suo Regno. E Gesù è ormai talmente spogliato di se stesso che agli insulti non risponde ma rimane nel silenzio. Sarei tentato di dire che risponde con il silenzio, ma mi chiedo se la sua libertà interiore e il suo essere ormai con il Padre nell’intimo del suo cuore (vv. 34.46), non lo portino a nemmeno più sentire le ingiurie, gli insulti e le provocazioni, ma ad ascoltare soltanto le parole di verità e umiltà dell’“altro malfattore” (v. 40) a cui promette comunione. All’inizio della sua attività pubblica Gesù aveva risposto con parole della Scrittura alle tentazioni del divisore (Lc 4,1-13), esprimendo così la sua prossimità con il Padre, ora, egli abita il silenzio ed è il silenzio il sigillo della sua intimità con il Padre.