Solitudine e comunità

Viviamo un tempo nel quale viviamo molte esperienze comuni­tarie. Con esse si vogliono superare gli incontri anonimi e le attività burocratiche: si intende, soprattutto, offrire all'uomo uno spazio di autentica esperienza personale e di comunione fraterna. Tuttavia anche la comunità può diventare un alibi: un rifugio, cioè, alle proprie paure e impotente, piuttosto che una convergenza e una partecipazione di persone vere, ricche di vocazioni mature e di scelte virili.
Per evitare le illusioni e le improvvisazioni comunitarie, si tratta di capire una realtà apparentemente paradossale e contraddittoria: solo le vere solitudini sono capaci di vere comunioni. Per rifarsi al Van­gelo, solo se il seme di una vita, di una coscienza, di una vocazione sa marcire (questo è il momento profondo e ricco di fecondità per­sonale) matura e cresce il frutto dell'amicizia, della comunione, della partecipazione. Non ci può essere comunità dove vite immature svuo­tano altre vite; dove coscienze smarrite si aggrappano a certezze im­prestate; dove vocazioni improvvisate cercano surrogati, succhiando vitalità invece che alimentare e donare vita.
Una comunità cristiana deve essere innanzitutto un incontro di « so­litudini contemplative », se si vuole sfociare davvero in una comu­nione operante di scelte concrete e di rischi storici. Altrimenti riman­gono « convivenze », fragili supporti a personali inconsistente inte­riori, che appoggiano il proprio vuoto sul vuoto altrui. Al massimo si avrà una convergenza esteriore di interessi culturali e intellettuali o, peggio, di emozioni estetiche.
Dove non crescono né si rispettano né salutarmente si provocano au­tentiche vocazioni, non nascerà né resisterà a lungo una comunità. Si parlerà di fraternità ma si spremerà sentimentalismo o umanismo; si pregherà anche insieme ma saranno più esercitazioni teologiche che abbandono alle sorprese dello Spirito e messa in comune del dono inesauribile della Verità fatta carne.

Umberto Vivarelli, La solitudine del cristiano

Chiamati a rispondere al dolore umano

 La vita però può insegnarci che i fatti del giorno, anche se superano le nostre capacità di sopportazione, non devono rimanere all'esterno del nostro cuore; che, invece di esserne amareggiata, la nostra vita può arrendersi al principio secondo il quale soltanto dal cuore può sgorgare una risposta creativa. Se la risposta al mondo rimane sospesa fra il cervello e le mani essa continuerà ad essere fiacca e superficiale. Se la protesta contro la guerra, contro la segregazione, contro l'ingiustizia sociale, non oltrepassa il livello della reazione, la nostra indignazione avrà un valore puramente personale, la speranza in un mondo migliore degenererà nel desiderio di ottenere risultati imra la nostra generosità si esaurirà nei dispiaceri. Soltanto quando il pensiero scende all'interno del cuore noi possiamo aspettarci una risposta duratura, che scaturisca dal nostro intimo io.


 

Molti di quelli che si sono prodigati per i diritti civili e che hanno operato nel movimento per la pace degli anni ne sono usciti stanchi e spesso cinici. Lo scoprire che la soluzione non dipendeva da loro, che si poteva fare molto poco, che non si ottenevano risultati visibili, ha tolto loro le energie, facendoli ripiegare sul loro io ferito, fuggire in un mondo di sogni e fantasie o unirsi per dispetto alla folla contro cui protestato. Non sorprende perciò scoprire che molti attivisti lottano contro le frustrazioni ricorrendo alla psicoterapia, o le negano con la droga, oppure tentano di alleviarle nel contesto di nuovi culti. La critica che si può fare agli anni sessanta non è che la protesta fosse senza senso, ma che non era abbastanza profonda, nel senso che non era radicata nella solitudine del cuore. Fino a quando solo la mente e le mani lavorano di conserva, ci si abitua presto a dipendere dai risultati delle nostre azioni e si tende a rinunciare se i risultati non si materializzano. Nella solitudine del cuore, invece, si può prestare orecchio attento ai dolori del mondo perché essi non ci appaiono estranei e sconosciuti bensì nostri, di noi stessi. Laggiù ci accorgeremo che ciò che è più universale è più personale e che in realtà nulla di ciò che è umano ci è estraneo. Laggiù potremo sentire che la crudele realtà della storia è invero la realtà del cuore umano, compreso il nostro, e che la protesta esige, anzitutto, una confessione della nostra partecipazione alla condizione umana. E da laggiù potremo rispondere.
Il proclamare che, come individui, siamo responsabili di tutto il dolore umano ci paralizzerebbe, ma il dire che siamo chiamati a rispondergli è un messaggio liberatore. Perché da una solidarietà intima con i nostri fratelli scaturisce il primo tentativo di alleviarne le pene.

H.J.M. Nouwen 

La solitudine è il crogiolo dell'amore

Al contrario dell'isolamento, la solitudine contraddistingue il momento della rivelazione di un essere a se stesso. Il solitario non è né disperso nel mondo, né isolato in se stesso. Non solo la solitudine si oppone all'isolamento, ma acquista un senso ulteriore: diventa uno dei segni distintivi dell'amore; forse, ne è il solo. Non c'è amore senza il doloroso apprendistato della solitudine, ma è possibile una pseudo-solitudine senza amore, quella dell'isolamento. Scrive Simone Weil: “Non lasciarti imprigionare da nessun affetto. Preserva la tua solitudine. Il giorno, se mai esso verrà, in cui ti fosse dato un vero affetto, non ci sarebbe opposizione fra la solitudine intima e l'amicizia; anzi, tu potrai riconoscerla proprio a quel segno infallibile”.
La solitudine è il crogiolo dell'amore. E la prova per la quale passano, a livelli diversi, lo sposo, l'amico. Essa non è sterile ripiegamento, ma realizzazione della costante novità del desiderio: desiderio dell'altro, desiderio di aprire all'altro quella parte di noi stessi che sfugge al nostro stesso sguardo, a quest'altro che ci è più intimo di noi stessi. Essa è fedeltà al desiderio unico la cui realizzazione non è possibile che nell'invincibile speranza che ne costituisce la forza e che, di supplica in supplica, ci conduce al cuore invisibile del mondo: Dio.

La solitudine del cuore

Senza la solitudine del cuore l'intimità dell'amicizia, del matrimonio e della vita comunitaria non può essere creativa. Senza la solitudine del cuore, nei nostri rapporti con gli altri noi saremo poveri ed avidi, viscidi e soffocanti, dipendenti e sentimentali, sfruttatori e parassiti, perché senza la solitudine di cuore non potremo percepire gli altri come diversi da noi stessi ma solo come persone da usare per il soddisfacimento dei nostri bisogni personali, spesso celati.
Il mistero dell'amore consiste nel fatto che esso protegge e rispetta la «solitarietà» dell'altro, creando lo spazio libero in cui egli può convertire l'isolamento in una solitudine da spartire. In quella solitudine ci si rafforza a vicenda per mezzo di un mutuo rispetto, di una considerazione sollecita delle rispettive individualità, di una lontananza rispondente alle reciproche intimità e di una comprensione riverente della sacralità del cuore umano. In tale solitudine ci si infonde l'un Paltro il coraggio necessario per scendere nel silenzio dell'intimo dove si scoprirà la voce di Dio che chiama ad una nuova comunione, al di là dei confini dell'umana socievolezza familiare. In tale solitudine si acquista pian piano coscienza della presenza di Colui che stringe in un abbraccio unico amici ed amanti, ed offre la libertà di amarsi l'un l'altro, perché «egli ci ha amati per primo» (1 Giov 4,19).

H.J.M. Nouwen, Viaggio spirituale per l’uomo contemporaneo, Queriniana, Brescia 2004

La solitudine rende possibile una vera e reale amicizia

In solitudine, invece, si può prestare attenzione al proprio io. Questo non ha niente a che fare con l'egocentrismo o con una introspezione malsana perché, secondo le parole di Rilke: «Ciò che accade nella profondità del nostro essere è degno di tutto il nostro amore». In solitudine possiamo essere presenti a noi stessi. Là possiamo vivere, come dice Anne Morrow Lindbergh «come un bambino e come un santo nell'immediatezza del qui e dell'ora». Là «ogni giorno, ogni azione, è un'isola, lavata dal tempo e dallo spazio, e di un'isola ha la completezza», In quel luogo possiamo anche essere presenti per gli altri, estendendoci fino a loro, non avidamente, per attirarne l'attenzione o suscitarne l'affetto, ma offrendo noi stessi per aiutarli a costruire una comunità d'amore. La solitudine non ci trascina lontano dai nostri fratelli ma rende piuttosto possibile una vera e reale amicizia. Pochi hanno espresso questo concetto meglio del monaco trappista Thomas Merton, il quale pur avendo trascorso gli ultimi anni dell'esistenza vivendo da eremita, fu condotto dalla solitudine contemplativa ad un intimo contatto con gli altri. Il 12 gennaio 1950 egli scriveva nel suo diario:«In questa solitudine profonda scopro la dolcezza che ci permette di amare realmente i fratelli. Più vivo da solitario più provo affetto per loro. È un affetto puro e pieno di reverenza per la solitudine altrui».

H.J.M. Nouwen, Viaggio spirituale per l’uomo contemporaneo, Queriniana, Brescia 2004